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Agalloch + Velnias + (EchO) at Carlito's Way
15 Aprile 2012
Retorbido (PV)
La mia presenza a questa data è stata in forse fino all'ultimo, dato un ginocchio che mi ha costretto a letto per ben due settimane; ma la passione per la musica è stata più forte di tutto. Eccomi, dunque, pronto a raccontarvi quanto ho visto e sentito. Il piatto forte della serata, tenutasi al Carlito's Way di Retorbido (locale che organizza veramente una marea di live) era ovviamente costituito dagli americani Agalloch, spalleggiati dai connazionali Velnias; ma fortunatamente c'era qualcuno a tenere alto l'orgoglio del nostro tricolore: l'apertura è infatti spettata nientemeno che agli (EchO).
Solitamente quando vado ad un concerto di quelli “once in a lifetime” tendo a vedere i gruppi spalla come un mero ostacolo temporale che mi separa dagli headliner. Questa volta invece non è stato cosi, vuoi perché avevo già avuto modo di conoscere – ed apprezzare – gli (EchO) (recensendone prima il lavoro promozionale, e dunque l’album di debutto 'Devoid Of Illusions’), vuoi perché a conti fatti la band ha tirato fuori dal cilindro una prestazione intensa, coinvolgente, impeccabile; e il fatto che gran parte del pubblico abbia seguito con interesse e partecipazione va ad avvalorare questa mia seconda ipotesi. Complici dei suoni veramente cristallini, la musica proposta si impone prepotentemente con tutte le sue sfumature, dalle atmosfere plumbee di ‘Internal Morphosis’ alle dolci note di tastiera di ‘Unforgiven March’. I ragazzi non sbagliano un colpo, ed anche le fasi più concitate, piene di doppia cassa e di stacchi, risultano nitide, precise, prive della benché minima sbavatura.
Sulle note morbide e sognanti di ‘Disclaming My Faults’ (se non vado errando) si chiude un’esibizione veramente intensa, e non è per dovere o per cortesia che dico che spero di poter rivedere quanto prima questa band: penso di potermi finalmente sbilanciare affermando che gli (EchO) sono tra le realtà nostrane maggiormente promettenti.
Al contrario degli (EchO), poco e niente conoscevo dei Velnias, per svariati motivi. Tra le mie colpe, l’averli ascoltati un po’ troppo distrattamente per azzardare un parere che andasse oltre il semplice “gradevole”; tra quelle non imputabili alla mia persona, il fatto che la loro proposta non ha mai fatto scattare in me quella scintilla in grado di spingermi ad approfondire. Dopo essermi perso la prima metà del loro show per riposare un po’ la stanca gamba traballante, avevo inizialmente sviluppato un’opinione abbastanza positiva, fondata su un lungo arpeggio con successiva partenza furiosa e tellurica (non conosco i titoli dei brani, dunque non posso assolutamente essere più preciso). Poi, però, ha iniziato ad emergere un retrogusto sludge, portando con se quello che reputo il vero punto debole di questa “corrente”: i vari riff, presi singolarmente, sono più che interessanti, ma manca l’economia del brano, quel filo conduttore che dona al tutto una struttura portante in grado di prendere per mano l’ascoltatore e guidarlo attraverso i meandri delle armonizzazioni. Pur non essendo stati sufficientemente convincenti da spingermi a riascoltare la loro musica in seguito, sembra che i Velnias siano riusciti a non far pesare troppo al pubblico l’attesa: il locale, infatti, pare aver apprezzato.
Quando le luci si abbassano, però, tutto quello che è successo primapassa in secondo piano; il cuore inizia a scalpitare non appena i quattro dell’Oregon compaiono uno dopo l’altro. Partono le note di ‘Limbs’, ed è il delirio. Il suono è perfetto: solo la voce ha forse un volume un po’ basso, e risulta giusto un minimo penalizzata, ma nel complesso l’acustica si rivela all’altezza della situazione.
Ampio spazio viene dedicato all’ultima fatica della band, ‘Marrow Of The Spirit’: ecco allora ‘Ghosts Of The Midwinter Fires’, ‘The Watcher’s Monilith’ e ‘Into The Painted Grey’, forse il pezzo più “pesante” che gli Agalloch abbiano mai composto.
Eccezion fatta per una non famosissima ‘Of Stone, Wind And Pillor’, la prima metà del concerto si concentra esclusivamente sulle fasi recenti della carriera degli Agalloch, con altre due song estrappolate da ‘Ashes Against The Grain’. Sto parlando di ‘Falling Snow’, trascinante con le sue decantazioni di epicità, e ‘Bloodbirds’ (con tanto di intro e outro, estratti dalle altre due ‘Our Fortress Is Burning’) , un concentrato unico di dolci melodie; interessante, tra l’altro, notare come sia proprio Haughm, sebbene già impegnato nelle non certo semplici linee vocali, ad occuparsi degli assoli, sempre pulitissimi e cristallini come la tradizione della band vuole.
Ad un certo punto, poi, fa capolino il riff di ‘Hallways Of Enchanted Ebony’, ed il tuffo nel grande passato può avere inizio. I primi anni di storia degli Agalloch sono pura poesia, un’evocazione di paesaggi lontani ed innevati tramutata in musica. Da ‘Pale Folklore’ viene ripescata anche ‘Dead Winter Days’, mentre l’unico omaggio a ‘The Mantle’ porta il nome di ‘In The Shadows Of Our Pale Companion'.
Quante bands di un certo spessore avrebbero il coraggio di chiudere un concerto con una cover? Gli Agalloch l’hanno avuto, e forse non si è trattato di una scelta difficile o azzardata dato che il brano in questione reca la firma d’autore dei Sol Invictus e porta il nome di ‘Kneel To The Cross’. Immaginate oltre 400 persone cantare a gran voce il coro a cappella iniziale “Summer is a’coming… and arise, arise…” ... credo che il brano stesso sia di quelli che i quattro dell’Oregon avrebbero sempre voluto aver scritto con le proprie mani. Alla fine di tutto questo una lunga outro a luci spente, e poi – con molta amarezza dei presenti, inneggianti a gran voce un bis – niente altro. Luci accese e band sul palco per gli autografi e le foto di rito. Ma è impossibile non accontentarsi, alla luce di due ore intensissime ed emozionanti. Per quel che mi riguarda, una prestazione che va a consolidare ulteriormente il posto d’onore che gli Agalloch si sono ritagliati tra le mie bands preferite di sempre.
Francesco Salvatori
(articolo liberamente tratto dal mio blog)