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Doin Earde

KANSEIL - Doin Earde
(2015 - Nemeton Records)voto: 9/10
Da brava residente del centro-sud, la prima volta che ho letto i titoli di alcuni brani del disco 'Doin Earde' ho sgranato gli occhi più volte, pensando “Ma noi non recensivamo solo band italiane?”. Mezzo secondo dopo ho realizzato che chiaramente doveva trattarsi di una band del nord Italia e, conseguentemente, ho fatto ammenda dandomi dell’idiota.
La band in questione sono i Kanseil (antico nome per designare l’altopiano del Cansiglio, in Veneto), sette ragazzi con la passione per il folk metal e un grandissimo legame con la loro terra, tanto da averla resa praticamente protagonista del loro primo full-length. Non mancano gli strumenti più particolari e tradizionali (appena ho letto “kantele” il mio cuore è immediatamente tornato in Finlandia e la mia testa si è messa a ripercorrere il Kalevala), così come non manca di certo l’affiatamento, che è palpabile perfino sul disco. La line-up è così composta: Andrea Facchin alla voce, Federico Grillo alle chitarre, Davide Mazzucco alle chitarre e al bouzouki (strumento tradizionale greco), Dimitri De Poli al basso, Luca Rover dietro le pelli, Luca Zanchettin al kantele e alla cornamusa e, per finire, Stefano (Herian) Da Re ai fiati (whistles e rauschpfeife).
Ascoltando il primo brano mi sono resa conto che in 'Doin Earde', probabilmente, non avrei trovato tracce di quella bonaria leggerezza e spensieratezza che di solito permea i dischi folk, e posso confermarvi di non essermi sbagliata. È un disco incredibilmente profondo e maturo, di certo un’ottima presentazione per una band con alle spalle soltanto un precedente demo.
Let’s get it started: è una poesia ad aprire le danze, ‘Lo Spirito della Notte’, in cui si fa riferimento all’imponenza ancestrale della Natura, una divinità davanti alla quale l’uomo può solo chinare la testa: “La Natura è un coro costante di voci”. Il secondo brano si intitola ‘Ciada Delàmis’ (espressione che designa, nuovamente, il Cansiglio) e narra la storia di un ricco conte il quale, per liberare la sua amata, è costretto ad affrontare dei terribili stregoni. Dalla furia della battaglia saranno generate le doline visibili tuttora in quella zona. Sia la voce che la parte strumentale trasudano rabbia, disperazione, violenza, alle quali si mescolano sapientemente le armonie mitiganti della cornamusa; l’unica tregua la troviamo nel ritornello, melodico e trascinante. Segue la title track, ‘Dòin Earde’ (“Tua terra”), una sorta di appello affinché l’umanità si renda conto di come i potenti stiano lentamente distruggendo la Natura, rendendola invivibile e rovinandola giorno dopo giorno. La voce si divide tra melodia e scream, mentre gli strumenti cambiano continuamente groove e modalità d’esecuzione, mantenendo il pezzo vivo e tenendo sveglio l’interesse dell’ascoltatore. ‘Dòin Earde’ si evolve continuamente, introducendo continuamente nuovi riff e nuovi suoni: promossa a pieni voti.
La quarta traccia si intitola ‘Panevìn’, che nient’altro è che il rito del rogo celebrato il 5 gennaio, giorno in cui le famiglie ed i paesi si riuniscono per “bruciare la vecchia” (un po’ come il rogo della Befana celebrato praticamente in tutta Italia), ovvero dire addio all’anno passato. Un’ottima intro che lascia spazio a melodie degne dei migliori Eluveitie; particolarmente degno di nota il ritornello. L’acustica ‘Ais un Snea’ (“Ghiaccio e neve”) è invece basata su un testo del 1800 ritrovato in una chiesa di Asiago, che la band ha liberamente interpretato e musicato: il tema portante è, di nuovo, la Natura, entità ciclica destinata a vivere in eterno e a sopravvivere nel corso delle stagioni, mentre il singolo uomo, prima o poi, inevitabilmente soccombe. Il brano è breve e molto semplice, eppure efficace ed in grado di colpire nel profondo. Mi sono quasi commossa.
‘Mažaròl’ è il nome di un folletto che popola i boschi intorno al Cansiglio e che, se trattato bene, può portare molti benefici a chi lo incontra; se infastidito, invece, farà dispetti di ogni tipo. Ottimi davvero gli assoli di cornamusa e di fiati, chapeau. Il settimo brano è intitolato ‘Bus de la Lùm’, che è il nome dell’inghiottitoio più profondo del Cansiglio, una voragine naturale alla quale sono connessi racconti e leggende di qualsiasi tipo. Anche qui sono gli strumenti tradizionali ad emergere in modo più spiccato, lasciando che le chitarre si dedichino quasi sempre all’accompagnamento, tranne nel finale, in cui fa capolino un assolo molto efficace, dalle influenze tra l’heavy e il thrash. Andiamo indietro nel tempo con ‘Bosch da Rème’ (“Bosco da remi”), in riferimento al fatto che i faggi di quei boschi che ormai conosciamo fossero utilizzati per costruire i remi delle galere veneziane. Intro dal sapore quasi celtico, seguita poco dopo da un ottimo accompagnamento generale, soprattutto da parte della batteria, e da un ritornello orecchiabilissimo che, se solo riuscissi a capire bene, canterei anche io. ‘Tzimbar Bint’, “Vento cimbro”, si apre con degli armonici di basso ed i delicati suoni del flauto. Il brano è un vecchio classico della band, proposto già precedentemente nel primo demo, ed esprime la profonda volontà di un contatto con le origini. In effetti trovo che tali origini, rappresentate dagli strumenti tradizionali, ben si fondano con la modernità ed il presente, di cui i suoni energici della chitarra sono fieri rappresentanti.
Siamo giunti alla fine. Il brano acustico ‘La sera’ celebra la notte, la fine del giorno appena trascorso, in una sorta di ballata d’addio. È un attimo di tregua prima dell’amara conclusione: sì, perché l’ultima, lunga traccia è intitolata ‘Vajont’, in memoria della tragedia che colpì quella valle il 9 ottobre 1963, quando l’ambizioso progetto della costruzione della diga più grande del mondo si rivelò eccessivamente invasivo per quelle fragili terre, le quali franarono mietendo molte vittime. I fautori di quell’impresa, dal canto loro, restarono vivi ed impuniti. Il brano è un’ulteriore denuncia ai potenti ed alle loro azioni sconsiderate, che spesso si rivelano, come in questo caso, fatali per le masse innocenti qui commemorate. Alla violenza delle chitarre e degli assoli si alterna la dolcezza degli altri strumenti, fondendo l’odio per i pochi individui che furono la causa del disastro con la volontà di commemorare tutti coloro che persero la vita per una tragica fatalità.
Mi sono un po’ dilungata, me ne rendo conto, ma la musica dei Kanseil è così connessa alle loro radici da avermi reso impossibile parlare dell’una senza neanche nominare le altre. Passato e presente si fondono continuamente in ‘Doin Earde’ e devo dire che la scelta di fondere dialetto ed italiano è riuscitissima. A dire la verità non sono una grande sostenitrice dell’utilizzo della lingua italiana nel metal, però ammetto che in questo caso una lingua come l’inglese sarebbe stata assolutamente fuori posto. Pur non avendo capito le espressioni dialettali più strette, il vostro messaggio mi è arrivato forte e chiaro.
Ben fatto, ragazzi, vi auguro un futuro radioso e vi confermo di essere, da oggi, una vostra accanita sostenitrice. Chissà, magari piano piano riuscirò anche ad esprimermi nella vostra lingua!
Elisa Mucciarelli