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Aquila

HOLY TIDE - Aquila
(2019 - My Kingdom Music)voto:
Grazie al progetto Holy Tide ho scoperto che Joe Caputo, bassista dei Sideboob nella serie “Orange is the new black”, ha un omonimo collega nel mondo reale: è la mente dietro a questo progetto di metal sinfonico dalle prospettive internazionali.
La foto “di gruppo” allegata alla biografia (dove ogni membro appare con illuminazione, risoluzione e dimensioni differenti…), rivela la band come un progetto di studio più che come un affiatato team che ha levigato le composizioni in sala prove. La provenienza della formazione ingaggiata (batterista inglese, cantante e chitarrista brasiliani) supporta questa ipotesi. Considerando poi che tutte le chitarre e gli arrangiamenti su disco sono opera di un musicista che non risulta in formazione (e come lui anche l’autore delle onnipresenti orchestrazioni!) non c’è molto da stupirsi se il risultato di questa avventura musicale sia piuttosto altalenante. Ma pettegolezzi a parte, veniamo alla musica, che è la sola cosa che importi davvero.
Personalmente non amo le intro orchestrali e le trovo decisamente fuori luogo nei casi in cui: durino troppo, non abbiano un forte tema melodico memorizzabile (neppure dopo tanti ascolti), siano seguite da un brano dotato a sua volta di un’introduzione… Bene, la loro “Creation - The Divine Design” ha tutte queste caratteristiche. Segue “Exodus” (avrete intuito che il tema dei testi è di evidente ispirazione biblica…) che fa davvero sperare per il meglio grazie ad una bella strofa dalla melodia irresistibilmente malinconica che ci introduce alla voce pacata ma drammatica di Fabio Caldeira, che si esprime qui nel range vocale medio che lo valorizza di più. Il ruolo delle tastiere (o in genere dei finti strumenti orchestrali) è davvero massiccio anche nella successiva “Chains Of Enoch” e stupisce non trovare in formazione un membro che se ne occupi ufficialmente.
Arrivati a “Godincidence” - in cui convivono buone intuizioni e un orribile finale - iniziamo ad avere inquadrato abbastanza chiaramente le possibilità (e i limiti) degli Holy Tide, che con canzoni mediamente lunghette (cinque minuti e più), riff non particolarmente luminosi, linee vocali poco avvincenti (con alcune rare ma gradite eccezioni) e un virtuosismo solistico intermittente (non sembra neppure lo stesso chitarrista), navigano nelle nebbie del “mah…”, rischiando fortemente di arenarsi sulle spiagge della noia. Sono infatti una buona manciata (su ben quattordici) i brani la cui assenza avrebbe giovato alla piacevolezza e alla qualità media del disco. Con una facile battuta verrebbe anche da chiedersi se ci fosse bisogno di fare il giro del mondo per trovare un cantante che, per quanto dignitoso, non sembra sempre a proprio agio (ad esempio la parte gridata in “Eagle Eye”).
Come premio per avere superato la metà del disco senza pausa caffè, ci aspetta “Lord Of The Armies”, che ci risveglia piacevolmente con la sua concisa velocità e un riff finalmente in grado di catturare l’attenzione. Mi piace anche l’andamento ipnotico di “Sunk Into The Ground”, con un tappeto di basso e cassa ostinati che fanno muovere la testa per tutto il ritornello.
L’etichetta discografica ci tiene a sottolineare anche la presenza di ospiti prestigiosi (oltre a svariati amici e parenti che contribuiscono egregiamente con arpa, tromba, oud e voce), per la precisione Don (e sticazzi!) Airey, che stacca una organettata più purpleiana che può sulla soporifera “The Shepherd’s Stone” e un sorprendente Thilo Wolff che, proponendosi tal quale come nei suoi Lacrimosa (tedesco incluso), ci regala con “Lamentation” una delle canzoni più belle e coinvolgenti di tutto “Aquila”. Quando però l’elenco delle partecipazioni straordinarie rischia di diventare più interessante dell’album stesso, forse è il caso di riconsiderare il proprio lavoro.
L’ultimo colpo di coda del disco è affidato ad un pezzo ordinario ma bello tirato, “The Name Of Blasphemy”, col ritornello facile, la batteria divertente e una chiusa gratuita e frettolosa di finti cori, proprio quando ci eravamo iniziati ad entusiasmare sul blast beat. Peccato.
La produzione è da standard del genere, con quei suoni (soprattutto di batteria) artificiali, pesanti e ”faticosi” da subire per un disco della durata di un’ora e dieci. I finali delle canzoni sembrano la parte meno curata della composizione. Peccato, perché è l’ultima cosa che si sente (e si “trattiene”) da un ascolto. In teoria non c’è nulla che sia gravemente insufficiente, siamo anzi di fronte ad un prodotto professionale e di una certa qualità qualità. Mancano solo le grandi canzoni e le interpretazioni da brividi. Manca una band.
Marcello M