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Sulphur Cvlt

DROWN IN SULPHUR - Sulphur Cvlt
(2021 - Bagana Records)voto:
Chi vi scrive si rende conto di essere vecchio nel momento in cui riceve questo album dei Drown In Sulphur, che si autodefiniscono una “giovane band death metal milanese”.
Sarà, ma quando ero giovane io il death metal era un’altra cosa. Preso atto della mia arretratezza, ho fatto i compiti e, grazie al pretesto di questa recensione, ho esplorato un poco quel mondo musicale coi suffissi “core” e quei look che non ti fanno entrare alla door selection di Metal Archives punto com.
Faccio partire il disco e resto davvero sorpreso: dopo una breve intro che avrebbe potuto inaugurare un brano degli Evanescence parte una botta sonora che mi lascia ribaltato! Il suono è una componente fondamentale di questo disco e credo che la produzione ultra massiccia e ricca di espedienti, ad opera di un giovane Francesco Ascari presso gi Zeta Factory di Carpi, sia l’elemento vincente (e più caratterizzante) della band.
In trentasei minuti di “un black deathcore arricchito di elementi sludge/downtempo” (cito dalla lettera di presentazione) le nove tracce risultano molto omogenee anche dal punto di vista del minutaggio, assestandosi infatti su una media di quattro minuti. Considerata la struttura frammentaria delle composizioni, che sembrano assemblate per giustapposizione di segmenti (vagoni di un treno, mattoncini lego…), rinunciando completamente a ogni “forma canzone” consueta, sembra quasi che a determinare la lunghezza dei pezzi sia più una considerazione logistica che un’esigenza di scrittura. Certo, ogni brano presenta alcune trovate uniche, sorprese gustose, ganci ritmici, ma l’impressione è che potrebbero benissimo essere intercambiabili, all’interno della composizione così come tra una traccia e l’altra.
Una cosa che mi colpisce molto delle giovani generazioni è la loro grande capacità nell’ottenere risultati, che va spesso di pari passo ad una scarsa consapevolezza. Provo a spiegarmi. Ad esempio, è innegabile la professionalità di questo “SULPHUR CVLT” e la sua spendibilità anche internazionale, ma quando si va a leggere quello che scrivono… Non mi riferisco tanto al “concept complesso e strutturato, che vede come protagonisti caratteristiche di entità demoniache e non, presenti nell’universo biblico e in quello Lovecraftiano”, la cui intelligibilità viene immolata senza pietà dalle variegate emissioni vocali del potentissimo e gorgogliante Luca Pareschi. Parlo, ad esempio, di questo: “Quest’album espone le nostre riflessioni riguardo al progresso tecnologico inversamente proporzionale a quello umanistico. Parliamo della nostra incapacità di uscire da schemi e stereotipi che albergano nella nostra civiltà occidentale e non, ormai da diversi millenni. Proprio questi stereotipi e dogmi sono tuttora causa di malesseri nel mondo, di guerre in nome di diverse religioni, di scuole di pensiero filo razziali e xenofobe verso le minoranze” commenta la band. Sì, l’ho preso pari pari dalla loro lettera di presentazione.
Un altro segno dei tempi che cambiano è la scelta, intelligente da parte della band, di offrire una discografia imperniata più su singoli ed EP che su album veri e propri, permettendo al progetto di avere sempre qualcosa di fresco da offrire ad un pubblico bombardato di offerte.
Ma tornando a parlare della musica, in questi brani che a volte sembrano andare avanti più per effetti sonori che per riff veri e propri, è comunque bello lasciarsi affascinare dal sound enorme, pachidermico, meccanico, oscuro e disorientante che indubbiamente ha una sua atmosfera. Manca forse un poco di quell’irruenza giovanile genuina, quella freschezza che rende tutto più vero.
La batteria è talmente perfetta ed estrema che spero non sia realmente suonata da un essere umano. Nessuna concessione alla melodia se non piccoli squarci, un arpeggino qua, un fraseggio là, qualche tappeto di tastiere e una digressione in stile Nile sul brano di chiusura. Ufficialmente non c’è neppure un bassista, ma le frequenze basse non mancano di certo, grazie alle accordature gravi delle chitarre.
Come composizioni a mio avviso spiccano “Blessed End” (per i suoi elementi ritmici) e la title track (che ci offre dopo due minuti e quaranta quello che forse è l’unico riff Metal vero e proprio del disco), anche se devo riconoscere che sparsi per tutto l’album abbiamo singoli momenti molto interessanti: la difficoltà è costruire, a partire da un buon riff o da una buona trovata, pure una buona canzone.
Alla fine di questo disco resto stordito: riesco ad apprezzarne alcuni aspetti (l’impatto, il clima meccanico/sulfureo…), mentre altri (l’insistita monotonia/monocromaticità, il non arrivare mai al punto…) mi appaiono come sprechi di energia.
Mah, forse è colpa della mia età: i loro video con milioni (milioni!) di visualizzazioni sono la prova che questo approccio alla musica interessa, è condiviso e vissuto da tante persone appassionate. Con tutta probabilità più giovani di me.