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Criminal Madhouse Conspiracy
CRIMINAL MADHOUSE CONSPIRACY - Criminal Madhouse Conspiracy
(2022 - Time To Kill Records)voto:
Quello dei Criminal Madhouse Conspiracy è un Thrash Metal lineare e di vecchio stampo, che più che ai modernismi e ai tecnicismi preferisce dare priorità al tiro e al groove.
Il debutto del quintetto romano si apre nel migliore dei modi con un brano dotato di un’introduzione iconica che ci proietta immediatamente indietro nel tempo, quando i dischi Thrash erano inaugurati da incipit evocativi e capaci di richiamare un’atmosfera sospesa, misteriosa ed epica, prima di tuffarsi nell’headbanging. “Thrashed” si risolve poi in soli due riff (più un’apertura strumentale), ma è proprio nella sua semplicità che riesce a convincere. Ecco, ciò che invece convince decisamente di meno è la sorpresa che stupisce le nostre orecchie nel momento in cui entra la batteria: la folle scelta di utilizzare per il suono della cassa un sample ad un volume assurdo relega immediatamente il disco al reparto “produzione amatoriale”.
“Animal” ha un ritmo più “ballabile” e rock ed è punteggiata dagli assoli piacevolmente retrò di Crossviolator e Tremor (ehm…). Bella l’atmosfera dell’arpeggio finale, che mi ha ricordato i Judas Priest di Jugulator.
La voce ringhiata di Lord Nanduk è virile e credibile, ma la sua monotonia espressiva spalma su ogni traccia un velo omogeneizzante che, unito alla scarsa capacità di scrivere linee vocali memorabili e incisive, è una zavorra che frena il decollo delle canzoni. Canzoni per lo più brevi, essenziali, dritte al punto, non prive di intuizioni melodiche, ma a mio avviso ancora piuttosto acerbe.
Su “Spiritual Death”, oltre alla cassa, abbiamo il charleston in preda ad una insopprimibile mania di protagonismo, deciso a tutti i costi ad alzare la voce e farsi sentire. L’andamento ritmico è però coinvolgente e ci fa fare su e giù con la testa fino agli accordi dilatati e aperti del “ritornello”, che in realtà non ritorna più, dato che il pezzo finisce subito dopo l’assolo. Sembra quasi che i ragazzi dei CMC abbiano paura di annoiare l’ascoltatore e si sentano i minuti contati, tanta è la sobrietà delle loro composizioni. È una cosa che apprezzo.
Riffing aggressivo, da Priest dopati, su “The Cage”, dove questa volta nel mixer è il fader del basso ad alzarsi, facendoci godere la performance di Nacho, dalla plettrata robusta e precisa, elemento essenziale alla compattezza del suono del gruppo.
Nel breve dischetto c’è spazio anche per una traccia strumentale, la battagliera “Desert Storm”, con riff dalle armonizzazioni curiose, un paio di assoli abbastanza ordinari e un finalino carino.
L’epicità del titolo (e dei quasi cinque minuti di durata) di “The Man Whose Name Was Written On Water” è giustamente tributata al Capitano Ahab, e anche se la potenza evocativa è molto distante da quella dei Mastodon, il brano ha una sua logica narrativa, con strofe incisive e un bell’andamento drammatico. In mezzo c’è anche un fraseggio armonizzato poco valorizzato, a favore di più generici assoli, che cercano di restituire la tumultuosa vicenda marina. C’è anche il tentativo di creare un vero climax emotivo con la sfuriata finale, troppo sbrigativa e “tirata via” per entusiasmare e coinvolgere veramente. Peccato.
“Fat Vertical Lips” mostra il lato più groove e smargiasso, assemblando materiale non proprio di primissima scelta. Il finale, poi, sembra il frutto di un editing grossolano, appiccicato lì senza un vero perché.
La conclusiva “Bones Behind” riprende (volutamente?) le note del brano introduttivo per un ulteriore arpeggio oscuro cui segue una strofa super cadenzata poco distinguibile dall’omologo ritornello. L’accelerazione arriva, tanto attesa quanto necessaria, senza però soddisfare a pieno la necessità di aria fresca.
Il gruppo c’è, la credibilità pure. Il problema credo stia nell’eccessiva ordinarietà dei riff. Un po’ di lavoro in più per affinare i pezzi, sia in sala prove che in studio, credo avrebbe giovato parecchio a questo debutto dal gradevole sapore vintage.
Marcello M