Voto: 9
Geniale. Questo è l’aggettivo che calza a pennello per definire l’ultimo capitolo di una band unica, della quale il metal italiano può essere davvero fiero. Stiamo parlando di un lavoro in grande stile, che riscatta appieno la band dagli sfortunati eventi che l’hanno funestata negli ultimi anni.
I Rhapsody of Fire fuoriescono da quello che è stato forse il periodo più duro di tutta la loro carriera; non deve essere stato semplice dover reggere alla defezione di una delle colonne portanti della formazione originale, il talentuoso e creativamente prolifico chitarrista Luca Turilli (separazione avvenuta in maniera amichevole nel 2011). Non deve essere stato semplice neppure far fronte alle critiche ricevute per il loro precedente lavoro, quel “Dark Wings of Steel” decisamente controverso, non brutto, ma davvero troppo distante dal tipico stile musicale del gruppo: troppo “monocromatico”, troppo duro e spigoloso in diversi punti; forse l’album che meno rappresenta i contenuti di fondo ai quali tutti erano abituati e che ha avuto la triste responsabilità di dividere in due il seguito degli affezionatissimi defenders.
Addirittura i detrattori già malignavano riguardo a una possibile chiusura definitiva del progetto.
Ebbene: tutti questi dubbi, tutte le frecciate e la paura che davvero il gruppo non dovesse farcela ad andare avanti, sono state messe a tacere il 15 Gennaio scorso – data testimone del ritorno in grande stile dei RoF – con un album che non solo è una vera e propria mazzata sonora (nel senso più nobile del termine), ma che possiede anche tutti gli attributi per donare nuova linfa vitale al genere “Symphonic Power Metal”, genere di fatto inventato proprio dalla band fondata a Trieste ormai 23 anni fa.
Le commistioni tra pomp-rock, musica sinfonica e il power tradizionale non sono certo una novità all’interno del filone heavy contemporaneo, ma sono davvero in pochi a possedere un’originalità di scrittura e un sound così epico come questo super-gruppo. Turilli è stato una delle menti pensanti del collettivo, ma non l’unica e in questa sede viene definitivamente confermato il talento compositivo di quel mostro di bravura che è il tastierista Alex Staropoli, vero e proprio mito vivente, incredibile virtuoso forte di un nutrito bagaglio classico alle spalle e qui autore di tutte le musiche (parti orchestrali comprese) insieme al fratello Manuel (coordinatore di tutti i fiati che compaiono nell’album, pur non essendo un membro effettivo del gruppo farà sentire la sua presenza in più di un’occasione).
Come per il lavoro precedente è di nuovo il vocalist Fabio Lione ad occuparsi delle liriche (ad esclusione di quelle in latino), toccando picchi altissimi come scrittore di testi (“Shining Star” e “The Kiss of Life” sono due ottimi esempi). Cantante estremamente versatile (inutile elencare qui tutte le bands con cui sta attualmente collaborando), dotato di una voce tenorile caratteristica e bellissima, sfoggia le proprie abilità canore interpretando i brani con una verve tutta sua, fornendo come sempre una prestazione impeccabile.
La vera prova del fuoco spetta al chitarrista Roberto DeMicheli, attuale axe-man della band, che riesce (eccome se ci riesce!!!) nel difficilissimo compito di non far rimpiangere il suo illustre predecessore. Se in “DWoS” pareva aver qualche difficoltà a integrarsi con gli altri componenti e con i vari pezzi, qui risulta totalmente a proprio agio e apporta un contributo fondamentale per la riuscita dell’album. Dotato di un’abilità esecutiva straordinaria, autentico maestro del proprio strumento, è capace di dare vita a splendidi arabeschi musicali, tecnicamente molto complessi ma sempre di grandissimo gusto (è un vero piacere ascoltare i suoi momenti solistici), spaziando tra qualunque tipo di tecnica: basi ritmiche, pennata alternata, arpeggio, sweep-picking, tapping e legato, per lui sono naturali come respirare. Tutte capacità al servizio di una persona dotata di grande sensibilità (ascoltando l’album capirete quello che voglio dire). Dimenticavo: suo anche il lavoro di stesura di tutte le liriche in lingua latina. Prova del fuoco superata, quindi, e con il massimo dei voti!
Che dire della sezione ritmica? Beh, per quanto riguarda il drumming andiamo più che sul sicuro, dato che dietro le pelli siede ancora il teutonico Alex Holzwarth, uno dei drummer più potenti, precisi, veloci e devastanti che ci siano in circolazione. Un rullo compressore umano che non teme il confronto con altri illustri colleghi e che, nel tempo, è diventato uno dei tasselli distintivi del gruppo.
New-entry al basso Alessandro Sala, già presente nei Sinestesia assieme a Roberto DeMicheli e qui alla sua primissima esperienza in studio coi RoF. Degno dei suoi compagni di squadra e garante di un’ottima prestazione che si fa sentire per tutta la durata dell’opera.
Passiamo quindi a una doverosa analisi track-by-track di “Into the Legend”, tenendo sempre a mente che qui nessuno dei cinque musicisti (e nemmeno l’orchestra al seguito) cerca di emergere rispetto agli altri. Quest’opera è frutto della collaborazione di un’equipe e ciò che conta, dall’inizio alla fine, è unicamente il fascino dell’insieme.
E’ con “In Principio” che si aprono le danze, un’intro che per i primi 42 secondi riporta in mente le atmosfere del film “Conan il Barbaro”, poi un breve istante di pausa e tutto si rivela: orchestrazioni e cori massicci assaltano i padiglioni auricolari degli ascoltatori per un’ambientazione degna di “Symphony of Enchanted Lands II” o addirittura di “Power of the Dragonflame”. Una maniera perfetta per farci capire ciò che sta per accadere.
Il vero e proprio brano d’inizio è “Distant Sky”, episodio aperto in maniera velocissima con raffiche di chitarra e batteria modulate da una bellissima melodia di tastiere in sottofondo. Uno splendido arrangiamento per una canzone davvero catchy e assimilabile (il ritornello è tutto un programma) che apre questo disco nel migliore dei modi. Assolo di chitarra spettacolare e un Holzwarth straordinario (come da sua tradizione).
“Into The Legend” è il primo singolo da cui è stato tratto un video (visualizzabile su YouTube) e presentato al pubblico in anteprima lo scorso novembre durante i live tenuti a Roma e a Trieste. Si tratta di un’altra traccia orecchiabile strutturata in maniera simile alla precedente, ma forse ancora più ipnotica nel suo incedere e dal ritornello estremamente accattivante. Il chitarrista ancora una volta dimostra di essere ben più che un comprimario, regalandoci un altro sorprendente momento solista (e il bello è che il suo meglio non è ancora arrivato!).
E’ a questo punto della scaletta che i nostri iniziano ad alzare decisamente il tiro (come a voler dire: “ci stavamo solo scaldando”): la ritmica composta da scale chitarristiche ultra-veloci e le bagpipes in sottofondo rappresentano la spina dorsale di cui è costituita “Winter’s Rain”: un pezzo solenne con un Lione che supera se stesso in uno splendido refrain stavolta rabbioso, oserei dire minaccioso, per una canzone 100% made by Rhapsody (come da tempo i fans aspettavano). I violoncelli e i cori in lingua latina impreziosiscono questa gemma che, garantisco, si vorrà ascoltare più e più volte, a costo di sciogliere il supporto nello stereo! La liricità struggente dell’assolo breve ma iper-efficace di DeMicheli (a questo punto diventa chiaro come per lui la tecnica sia al servizio della musica e mai il contrario) completa la bellezza del quadro.
Tornano a farsi sentire le ambientazioni di “Symphony II” con “A Voice In The Cold Wind”, canzone piena zeppa di ambientazioni acustiche create dal suono del clavicembalo (una delle tastiere preferite da Alex Staropoli) e dai fiati splendidamente arrangiati grazie al lavoro certosino di Manuel (un musicista che si spera possa continuare a dire la sua in più occasioni e con più gruppi del genere, visto il suo immenso talento). A tre quarti del pezzo ecco ricomparire la chitarra di DeMicheli che si inserisce subito dopo il flauto di Manuel per regalarci un’altra fantastica sequenza di fraseggi e poi cedere di nuovo il passo al ritornello. Un breve attimo di silenzio e la chiusura affidata al flauto, che scompare delicatamente.
Si è trattato comunque della quiete prima della tempesta, perché “Valley Of Shadows” assalta l’ascoltatore senza preamboli con ritmiche potenti e dirette, seguite dalla stentorea voce della soprano Manuela Kriscak alla quale subentra un Lione decisamente più aggressivo del solito. Bellissimi i passaggi vocali dei cori sia nelle strofe che nel ritornello. I minacciosi arrangiamenti di Alex Staropoli e il lavoro delle chitarre (ottimo il solo e il tappeto sonoro delle ritmiche eseguito verso la conclusione) completano il quadro, regalandoci un pezzo privo di punti deboli.
A questo punto ci si trova oltre la metà della scaletta e arriva un altro momento-apice di “ItL”: “Shining Star”. Si tratta di un passaggio musicale estremamente intenso, profondamente sentito e che non mancherà di catturare l’interesse di chiunque vorrà prendersi la briga di ascoltare quest’album nella sua interezza. Evitiamo per favore il confronto con le altre ballads scritte in passato. Questa è una traccia a sé e di rara bellezza, introdotta da un bellissimo arpeggio di chitarra classica, seguito da un violoncello al quale subito dopo si unisce un’orchestra d’archi; Fabio ci regala una delle sue interpretazioni migliori in assoluto (!) declamando gli splendidi versi in maniera estremamente solenne, accompagnato dal pianoforte di Alex e da una splendida ritmica di basso e chitarre elettriche. Il solo di Roberto è una lezione di stile. Una gemma che impreziosisce ulteriormente quest’opera che convince e commuove.
“Realms Of Light” è un altro momento intenso, stavolta forte, potente, dove l’ugola di Fabio raggiunge vette ancora più elevate e addirittura nel bridge si fa accompagnare dai vocalizzi del bravissimo soprano Manuela; il basso di Alessandro Sala si fa sentire regalandoci splendide cavalcate epiche; l’assolo è costituito da un magnifico duello di tastiere e chitarre che paiono volersi inseguire vicendevolmente. Un brano come questo non si sentiva dai tempi di “The Frozen Tears of Angels”. Che dire di più? Che occorre fare attenzione, perché tra tanta abbondanza questa canzone rischia di passare inosservata e sarebbe un vero peccato.
La sorprendente “Rage Of Dakness” darà un bel po’ da pensare a tutti i critici musicali, tenendo conto di quanto sia particolarmente variegata. Chi brilla qui è Holzwarth, che non suona, ma sfonda il proprio drum-set regalandoci muro sonoro e rullate da infarto, che fanno il paio con lo spettacolare lavoro di basso di Alessandro Sala, autore di passaggi altamente veloci e precisi. L’assolo di chitarra è forse il più bello dell’intero lotto di canzoni: un pezzo di bravura, un’esecuzione alla velocità della luce (tramite pennata alternata e sweep-picking!) che fonde magistralmente le immense conoscenze tecniche di Roberto e il suo notevole gusto compositivo. Non basta. C’è Alex con le sue tastiere a inseguire le chitarre dando vita così a un’incredibile sequenza di botta e risposta. Sembra impossibile venga mantenuta così tanta melodia nonostante l’elevata velocità esecutiva di entrambi gli strumentisti. Ciliegina sulla torta: gli screaming-vocals di Fabio nella parte conclusiva. Un altro grande esempio di classe innata.
Siamo arrivati al brano conclusivo “The Kiss Of Life”, suite di 16 minuti separata in tre diversi movimenti. Nel primo si ascolta di tutto, dall’opera lirica, alle orchestrazioni strumentali della musica classica più irruente (Beethoven, Vivaldi e Paganini sono evidentemente amati alla follia dai fratelli Alex e Manuel), pur mantenendo immutate le ritmiche tipiche del Power tradizionale. Maestro di cerimonie è sempre Fabio, una costante conferma. Il secondo movimento inizia in maniera diametralmente opposta rispetto all’origine della suite: sonorità acustiche (chitarra e violoncello) a farla da padrone e il cantato di Fabio (accompagnato a tratti da Manuela) ora in lingua italiana. La tregua ha presto fine e la quiete viene interrotta da un magnifico coro (in latino) che ci accompagna verso la parte strumentale dove brillano gli assoli di tastiera e chitarra (ancora alternati secondo la formula collaudata del botta e risposta) e sorretti dal migliore tappeto orchestrale possibile. Riprende quindi il refrain principale e la voce di Fabio diventa straordinariamente aggressiva. Il terzo movimento conclude la suite con un meraviglioso passaggio caratterizzato dalla presenza della sola orchestra.
“Volar sin Dolor” è la versione in lingua spagnola di “Shining Star” inclusa nelle special versions dell’album.
I Rhapsody of Fire di oggi non sono, come qualcuno ha erroneamente affermato, “la band di Trieste priva di Luca Turilli”. Quella band non esiste più. E’ morta nel 2011. Ma dalle sue ceneri, come l’Araba Fenice, è risorta questa nuova band, guidata da Alex Staropoli, a cui va dato l’onore al merito di non essersi arreso, di aver voluto andare avanti prendendosi sulle spalle tutte le responsabilità che hanno seguito tale scelta. Questo “Into the Legend” è la sua risposta, sua e di tutti i colleghi che lo hanno accompagnato in questa nuova avventura. Era dai tempi di “Symphony of Enchanted Lands part II” che i triestini non pubblicavano un lavoro di tale bellezza. Un disco da avere assolutamente, un oggetto di indubbio valore e ineguagliabile fascino.
Il talento non è acqua e, in accordanza col titolo dell’album, ci troviamo all’interno della leggenda!
PS: Esistono addirittura cinque versioni di quest’album: CD, CD Lt. Ed. Digipak, CD Cofanetto Lt. Ed., 2-LP Vinile colorato Argento Lt. Ed., 2-LP Vinile colorato Oro Lt. Ed.
Fabrizio Travis Bickle Zànoli
TrackList
- In Principio
- Distant Sky
- Into the Legend
- Winter’s Rain
- A Voice in the Cold Wind
- Valley of Shadows
- Shining Star
- Realms of Light
- Rage of Darkness
- The Kiss of Life
- Anno: 2016
- Etichetta: AFM Records
- Genere: Power Metal
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