Voto: 5
Spesso recensire alcuni dischi richiede un grande sforzo, umano e fisico.
Provi ad ascoltarlo una, due volte, tre. Sperando che magari le prime due volte il tuo udito, o il tuo approccio empatico del momento abbiano giocato un brutto tiro.
Al terzo però, generalmente, i dubbi sulla qualità del disco vengono quasi sempre dissipati. E, certo, non si tratterà di un prodotto eccellente, ma comunque ha superato il secondo ascolto, quindi la sufficienza può meritarla. Anche per altri fattori come la buona produzione o l’impegno e l’entusiasmo che traspaiono dal disco, dalla band, dall’amalgama di suoni finale.
Raramente mi sono trovato a dover recensire negativamente un disco, ma non posso esimermi dal farlo.
Perché se è vero che chi fa recensioni non è pagato per farlo, quindi potrebbe anche teoricamente scrivere castronerie per non offendere nessuno, è anche vero che la fiducia nelle band e soprattutto la ritrovata fiducia in un mercato, quello musicale, ormai saturo di troppa gente che si atteggia e basta, deve (o dovrebbe) venire soprattutto da chi le recensioni le fa. Sia o meno per lavoro o per hobby.
Perché chi scrive recensioni deve indubbiamente invogliare all’ascolto. Ma deve anche essere portavoce della buona musica, quella fatta bene e con giudizio. Viceversa il recensore si trasforma in una sorta di venditore di mattoni dentro la scatola dell’Iphone, spacciando per valido un prodotto che non lo è, truffando chi nella recensione ha riposto fiducia confidando in un recensore attento e in grado di consigliare.
Il disco dei Roxin’ Palace, il secondo disco uscito alla fine del 2016, è un disco che francamente non si può recensire positivamente, e che proprio si fa fatica a recensire in realtà.
Perché dal disco, comunque troppo lungo con le sue tredici tracce (un disco di tredice tracce si sopporta male anche se la tua band si chiama Iron Maiden per dire), si percepisce, fin da subito, che lo stesso è nato quasi come un riempitivo al tempo libero dei componenti della band.
Tredici tracce in cui è sinceramente difficile capire, in ciascuna di esse, dove voglia andare a parare la band. Che non ha una linea conduttrice nel suono, non trasmette entusiasmo, non trasmette, più di ogni altra cosa, quello spirito sleaze glam che dovrebbe trascinare l’ascoltatore, mentre qui appesantisce semplicemente l’ascolto dell’intero lavoro. Troppe influenze forse (heavy metal in alcune tracce, glam metal in altre, entrambe in altre ancora), o forse influenze tra loro male amalgamate, per una indubbia mancanza di vero spirito di gruppo, che anche dai pezzi non traspare affatto.
Non mi è possibile dare un giudizio positivo di alcun pezzo, voglio essere onesta.
Non c’è una preparazione vocale del cantante, che sembra preso per caso come rimpiazzo del precedente e non capace di gestire canzoni che vorrebbero cavalcare l’onda dello sleaze glam anni 80.
Senza riuscirci affatto. Perché produzione, parte vocale e strumentale sono completamente disconnesse tra loro, creando un caos difficilmente tollerabile per più di qualche minuto anche alle orecchie più avvezze all’ascolto di musica.
Davvero difficile una disamina del disco pezzo per pezzo, per i motivi che ho esposto e che spero possano essere presi in considerazione dalla band stessa per un futuro terzo disco che riesca ad essere espressione di una volontà sincera di incidere un disco e di uno spirito, quello sleaze glam, certamente troppo utilizzato da troppi negli ultimi tempi ma sempre in grado di divertire ed essere colonna sonore di ottime serate con gli amici.
Valentina Viper Martini
- Anno: 2016
- Etichetta: Sleaszy Rider Records/Eagle Booking
- Genere: Glam/Hard Rock
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