I Sadist sono una band formata a Genova nel 1991, dalle diaboliche menti del mitico batterista “Peso” e dal chitarrista Tommy Talamanca, già presenti nelle fila dei feroci Necrodeath. I due musicisti, intenzionati a dare vita a un progetto capace di presentare al pubblico idee nuove e particolari come (fino ad allora) non si era ancora sentito, decisero di dare vita a una commistione tra il più brutale Death Metal e il Prog anni ’70.
Una scelta che all’epoca dei fatti doveva apparire quanto meno azzardata se non folle, considerata l’eterogeneità dei due generi presi in esame, ma l’esperimento riesce, soprattutto grazie alla dedizione dei due strumentisti, convinti oltre ogni dubbio della bontà delle loro idee. Nel 1993 esce l’esordio, il riuscitissimo Above the Light che diede da pensare un bel po’ alla critica specializzata nostrana e straniera. Le opinioni discordanti di allora non potevano comunque oscurare il risultato finale dell’opera che era e resta indiscutibile e così i Sadist diventarono un punto di riferimento nella scena estrema di casa e in quella internazionale (cosa non da poco!), guadagnandosi un fedele seguito e dando vita due anni dopo a Tribe, album ancora più intenso, ruvido e crudele dell’ottimo predecessore.
Purtroppo nel 2000, il formidabile “Peso” abbandona il progetto e la formazione rimaneggiata darà alle stampe la terza fatica, Lego, prova magari non ai livelli dei due capolavori precedenti ma comunque ottima, alla quale seguirà lo scioglimento del gruppo.
Scioglimento che si rivelerà poi essere soltanto una pausa forzata, dato che nel 2005 il gruppo risorgerà dalle ceneri con la stessa line-up della precedente fatica e darà vita al buon Sadist, al quale seguiranno Season in Silence nel 2010 e Hyaena nel 2015, tutte prove qualitativamente ineccepibili anche se, chi scrive, si trova d’accordo con buona parte di una certa frangia della critica specializzata, ritenendo i primi due full-lengt delle assolute pietre miliari nella musica dura. Va comunque tenuto conto della genialità di una proposta che oggi si può ascoltare nelle proposte di tanti gruppi ma che all’epoca delle origini (quasi trent’anni fa!) appariva certamente inusitata. Ed è così che, a tre anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio i Sadist (sempre capitananti da Tommy) tornano in studio per dare vita a Spellbound, un lavoro che si rivela essere un sentito omaggio alle opere del grande Alfred Hitchcock, maestro del brivido, una delle personalità più importanti di tutta la storia del cinema.
Una copertina inquietante, dove in primis subito salta agli occhi la casa gotica di Norman Bates (Psycho) e il cadavere imbalsamato della madre Norma, rende efficacemente l’idea di quali atmosfere lugubri, surreali e maligne ci aspettino disponendoci all’ascolto di questo disco.
Ogni canzone rappresenta un film del geniale cineasta britannico e va detto come i nostri siano riusciti a rappresentare efficacemente le atmosfere sinistre e lugubri proprie delle tematiche care al maestro.
Breve parentesi: chi scrive si sente di consigliare spassionatamente a tutte le nuove leve che non conoscano il lavori del regista (defunto, aimè, quasi quarant’anni fa) di documentarsi al riguardo e, se possibile, procurarsi le opere tratte in esame in quest’ottimo lavoro. Alla fine del 2018 possiamo dire con sicurezza di trattare elementi culturali di alto livello, a prescindere da che il genere possa piacere o meno. Il valore dell’uomo come delle sue opere restano indiscutibili.
Procediamo quindi con la doverosa analisi delle varie songs.
Correva l’anno 1935 e “39 Steps” (“Il Club dei 39” è il titolo italiano) vede la luce nelle sale cinematografiche. Un’introduzione costituita da tastiere che ripetono il refrain in maniera ossessiva, con effetti sonori in sottofondo a dir poco disturbanti e le orchestrazioni di fondo particolarmente maligne. Un’ottima introduzione nel mondo dell’incubo.
“The Birds” (“Gli uccelli” del 1963, un film praticamente conosciuto da tutti quelli della generazione di chi scrive), diventa un pezzo crudele ottimamente strutturato, con un tappeto di tastiere di grande gusto compositivo a fare da base introduttiva e strutturale e dove la voce al vetriolo del cantante Trevor fa la sua prima comparsa (e che comparsa!).
“Spellbound” (“Io ti salverò”, anno 1945). Una lugubre intro pianistica è seguita da atmosfere tastieristiche da incubo e da un cantante che pare uscire direttamente dai visceri dell’inferno. Magistrale la parte di basso del bravissimo Andy Marchini e il cantato che si alterna con disinvoltura dal growl più gutturale allo scream.
“Rear Window” (“La Finestra sul Cortile”, 1954) è uno degli indiscussi capolavori della filmografia di Hitchcock e la band non si risparmia nel creare tensione e ferocia. Crudele fino al parossismo. Magnifici gli urli del cantante nella versione scream e precisissimo il lavoro di Alessio Spallarossa alla batteria.
“Bloody Bates” (ovvero il conosciutissimo “Psycho” del 1960, ormai un manifesto del genere thriller) è forse la song più ambigua dell’intero lotto. Se le atmosfere introduttive possono lasciar pensare a un momento di tregua per quello che riguarda l’intero lotto di canzoni, in realtà ciò serve esclusivamente a preparare l’ascoltatore alla brutale vicenda che ne segue. Il growl è perfetto, micidiale e preciso nel suo apparire/scomparire cedendo temporaneamente (e brevemente) spazio alle melodie di tastiera (sonorità magnifiche). Ottimo il guitar-solo, breve e incisivo. Non preoccupatevi, quindi. Si resta immersi nel solito, truculento pantano.
“Notorius” (“L’amante perduta”, anno 1946), diventa un momento strumentale dove emerge il lato più riflessivo del gruppo. Sempre inquietante ma, posto proprio a metà della scaletta, pare voler concedere un minimo di tregua tra tanto massacro. Comunque: strumentisti in stato di grazia e altamente ispirati e bellissime le linee di basso e di tastiere.
“Stage Fright” (‘Paura in palcoscenico’, 1950), riprende tutta la cattiveria di cui i nostri sono capaci, con brutalità, precisione e velocità esecutiva. Anche in questo caso non bisogna farsi trarre in inganno dalle tastiere introduttive (qui solo lugubri, comunque): la doppia cassa di batteria e il feroce cantato non concedono respiro.
“I’m the Man Who Knew Too Much” (“L’uomo che sapeva troppo”), diventa un pezzo ancora più crudele dei precedenti. Momenti cadenzati, pressanti, mitigati da un refrain malato di pianoforte e la voce che gratta come cartavetra i padiglioni auricolari dell’incauto ascoltatore. Altro splendido guitar-solo in una composizione che si rivela uno degli apici del disco.
“Frenzy” (1972), è un pezzo veloce, preciso, crudele, dove la doppia cassa del batterista la fa da padrone e le ritmiche di chitarra assaltano incessantemente. Malefico il solo di chitarra, breve, semplice e incisivo, sostenuto da ritmiche di pianoforte tutte giocate sui toni bassi.
“The Mountain Eagle” (‘L’aquila della montagna’, 1926), presenta tre minuti e mezzo di livore, con un ottimo contrasto tra le melodie in sottofondo di tastiera (malate, infette) e il growl brutale del cantante, che pare non voler concedere riposo alle sue corde vocali al titanio. E ancora un solo di chitarra decisamente efficace e di grande gusto.
“Downhill”, è la terrorizzante chiusura, brevissima e di sole tastiere, ma incredibilmente minacciosa e abile nel alimentare l’ansia di chi ascolta.
Un lavoro ottimo, infarcito di grandi idee, originali e ben calibrate nel voler rendere omaggio a un mostro sacro del cinema il quale, va detto, ha portato sullo schermo fin dai primi decenni del ‘900, quelle che sarebbero state le basi e le tematiche di gruppi estremi nati a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Questo unito all’indiscutibile preparazione tecnica dei nostri rendono Spellbound un graditissimo ritorno dei Sadist e un must per ogni appassionato del genere.
Bentornati.
Fabrizio Travis Bickle Zànoli
TrackList
- 39 Steps
- The Birds
- Spellbound
- Rear Window
- Bloody Bates
- Notorius
- Stage Fright
- I’m the Man Who Knew Too Much
- Frenzy
- The Mountain Eagle
- Anno: 2018
- Etichetta: Scarlet Records
- Genere: Progressive Death Metal
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