Dietro al suggestivo nome Black Yes Full Of Stars troviamo un musicista, compositore e arrangiatore dalla forte personalità, che lasciata la nata Urbino ha fatto di Amsterdam la propria sede operativa. Si tratta del relativamente giovane Carlo M. Dini, un professionista nell’ambito delle sonorizzazioni con una non sopita passione per il Metal pomposo, orchestrale e magniloquente. È stato interessante scoprire come l’album “Dark Wine Gospel” sia nato inizialmente in versione orchestrale e vocale, su cui solo in seguito Carlo ha apparecchiato una ricca tavolata metallica. Dimostrando un’intelligenza musicale degna del proprio mestiere, non si è accontentato di strumenti virtuali, ma si è avvalso di musicisti veri ed esperti (vi basta Michiel van der Plicht, batterista dei Pestilence?), veri cantanti e veri cori, due assi come Stefano Morabito e Simone Mularoni per i suoni e tenendo per sé le non poche chitarre. L’attenzione ai dettagli e la serietà di approccio alla materia sono evidenti e collocano la band un gradino al di sopra di tante esperienze analoghe dal taglio leggermente più amatoriale. Il mio primo approccio a questa musica è stato con la lettura delle ricche note di presentazione, che hanno caricato parecchio le aspettative, poi ho messo su la versione orchestrale del disco (che è stato pubblicato col titolo “In Glorious Red”) rimanendo un poco perplesso da quell’ammasso di archi svolazzanti, fiati solenni, timpani roboanti e vocioni aggressivi e tonanti, una materia amorfa e di difficile identificazione, sorta di black goo sonoro, in cui ho fatto fatica ad intravedere brani vincenti o avvincenti, frastornato da quell’enfasi epica a briglia sciolta. Ma i cantati stentorei di Davide Penna erano veramente eccellenti e ho pensato che con una bella batteria a fare da ossatura alle composizioni mi sarebbe stato più facile interpretare e digerire il tutto.
Mi butto quindi sull’album vero e proprio, un oscuro concept alchemico dai risvolti noir, pronto a godermi lo spettacolo. Tutti ingredienti di prima scelta e un muro di suono veramente notevole, con gli strumenti “Metal” che aggiungono profondità e nerbo alle versioni primordiali, scandendone meglio le sezioni e incorniciandone i passaggi. Ecco, devo dire che, per il mio gusto personale, resto un pochino deluso, come se in tutta questa abbondanza mancasse una scintilla di vero genio, estro espressivo, originalità. Certo, non è che ne esista molta di roba come questa, ma le soluzioni melodiche mi sembrano sempre rientrare all’interno di una norma che rassicura e convince, ma non entusiasma o emoziona mai veramente. È tutto molto cinematografico, spinto, pieno, “loud”, ma nonostante ciò non mi sembra si vada mai oltre una molto ben fatta “normalità”, anche se gestita nei suoi ambiti più periferici ed estremi.
Paradossalmente, se fosse stato più grottesco o pacchiano (Therion?) avrei trovato il tutto più accattivante e personale, ma l’esperienza di Carlo gli permette di non sbilanciarsi mai troppo oltre i confini del gusto e del “giusto”, mantenendo un equilibrio che renderebbe pronta questa musica per accompagnare scene su grande schermo.
Ma questa è solo una questione di mio gusto personale, che nulla toglie all’indubbia qualità della proposta. La massiccia batteria ricama con perizia entro i riquadri, ma difficilmente sui suoi tappeti di doppia cassa si stagliano melodie memorabili e nonostante la voce d’acciaio di Davide non si risparmi un briciolo di energia, facciamo fatica ad entusiasmarci ed unirci a cantare a squarciagola con lui.
Devo aspettare la terza traccia “Nigredo, Foulest Servant” per essere finalmente appagato dall’enfasi epica e battagliera di un brano potente, scuro, incisivo, all’altezza delle promesse, guidato dal growl di Ludovico Cioffi (Delain), impreziosito da un fluido e ricco assolo di chitarra e spinto da cori tanto ricchi quanto, ahimè, ordinari.
“Albedo, Ancient Heart” deflagra, dopo un’introduzione di timpani, archi e cori, con tutta la gloriosa e vigorosa opulenza che stavo aspettando, offrendoci anche le melodie vocali più efficaci udite finora, proponendosi come il miglior brano dell’album, grazie anche ad una dinamica più accentuata e dirompente.
La terza fase dell’Opera, “Rubedo, The Artist” è una lunga partitura di quasi nove minuti, distribuiti tra un riffone mammuthesco, strofe scalpellate nel granito, incisi martellanti, cori colossali, alcune sorprese armoniche e l’ennesima performance ad alti regimi da parte dei due cantanti solisti. Bella la coda ritornello, che alleggerisce con pennellate melodiche la bituminosa atmosfera precedente.
Chiude il disco l’altrettanto ponderosa “King Of Salt” che ripropone un po’ gli stessi elementi, senza che particolari ganci restino appigliati alle nostre orecchie, in un continuo, anche piacevole, fluire di cascate sinfoniche e metalliche che scorrono come un impetuoso fiume di fango che possiamo osservare al sicuro, su un alto e solido argine. Ecco, peccato che forse questa roba invece un po’ di paura dovrebbe farcela.
“Dark Wine Gospel” è un monolitico biglietto da visita che si impone sul panorama del Metal sinfonico di oggi, possa piacere oppure no. Una prova di forza, di volontà e di capacità. Un grande lavoro, anche a livello di testi, da parte di Carlo M. Dini, un personaggio da tenere d’occhio.
Marcello M
Tracklist:
- Halom Shacor
- The Great Work
- Nigredo Foulest Servant
- Albedo, Ancient Heart
- Rubedo, The Artist
- Anno: 2025
- Etichetta: Autoprodotto
- Genere: Symphonic Metal, Bombastic Soundtrack
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