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Fulìsche

KANSEIL - Fulìsche
(2018 - RockShots Records)voto:
Sono tanti gli elementi che immediatamente affascinano nelle canzoni dei Kanseil: la montagna, la foresta, la neve, il fuoco, la notte, la storia, il folklore, il dialetto, l’idea romantica di un passato ricostruito secondo le esigenze della modernità…
Ma spesso non sono sufficienti archetipi potenti, ingredienti e materie prime di alta qualità, per ottenere un grande risultato.
Fieramente proveniente dall’altopiano del Cansiglio (Kanseil…), quello che al primo ascolto mi era parso un progetto solista, è in realtà un affiatato settetto di giovani amici che si butta nell’affollato calderone dei “gruppi con le pellicce e la cornamusa” avendo però l’intelligenza di radicarsi fortemente al territorio (appoggiandosi anche alle istituzioni e associazioni locali) anziché sbandierare un generico guazzabuglio di folklorismo mitologico.
A differenza di tanti colleghi, siamo di fronte ad un gruppo Metal che avrebbe anche degli argomenti interessanti (temi sociali come i migranti economici e gli sfruttati, siano essi soldati o carbonai; la toponomastica locale…) ma che si dimostra piuttosto acerbo nell’esprimerli. Musicalmente siamo spesso di fronte ad un collaudato schema di giri armonici tanto efficaci quanto abusati, con le sfuriate Black Metal degli esordi ridimensionate a favore di progressioni più vicine al Power o a quel Death Metal semplicione “alla vichinga”. Gli strumenti “folk” (cito: “bagpipes, kantele, bouzouki, whistles, raushpfeife”) sono utilizzati più come un ricamo che come la trama del tessuto e spesso disegnano melodie poco incisive, come se ci si facesse bastare l’innegabile fascino del loro timbro senza chiedere troppo di più.
Il lavoro solista delle chitarre è tutt’altro che virtuosistico e suona un poco stentato, ma è elargito con saggia parsimonia.
Ma il vero grosso problema lo abbiamo nel reparto voce e testi.
Questi ultimi sembrano scritti senza alcuna particolare attenzione per la forma, con aggettivi sparpagliati in maniera gratuita e sintassi improbabile. Sono il primo a riconoscere che scrivere un testo mediocre in inglese sia più semplice che farne uno buono in italiano, ma proprio per questo è necessario un lavoro di studio e ricerca che qui manca palesemente (o, peggio, ha portato ad un risultato scadente). Sembrano le poesie che si scrivono alle medie. La sillabazione nei cantati è sgangherata.
Il buon Andrea Facchin, che sembra un ragazzo simpatico, non ha ancora trovato una dimensione vocale matura e spesso suona grottesco, fuori luogo, ingenuo. Il tempo conferirà sicuramente al suo timbro lo spessore che merita.
I cantati melodici lenti mi ricordano una brutta versione amatoriale dei momenti meno felici dei bolognesi Eva Can’t.
La tracklist di “Fulìsche” (che credo si possa tradurre con il concetto di fulgide ed effimere “faville”) è comunque molto solida, ogni canzone nasce da un’esigenza espressiva e mancano i pezzi inutili. Anche l’introduzione recitata è, una volta tanto, pertinente e funzionale.
“La Battaglia del Solstizio” apre il disco ricordando i Malnàtt di qualche tempo fa, per continuare su una musicalmente ammiccante “Ander de le Mate”, che regala un bel finalino strumentale. Molto meno valido invece il finale della successiva “Pojat”, che in compenso è uno dei brani più belli, con un ritornello coinvolgente che fa venire i brividi. Per questa canzone è stato girato un video promozionale in costume che paradossalmente spoglia la canzone della sua magia, regalando momenti di ilarità (involontaria, suppongo) proprio nello svelarne la finzione. Metafora della poetica musicale del gruppo?
Una leggenda locale è lo spunto per la lunga ma non complessa “Orcolàt”, che alterna arpeggi, aperture melodiche epiche e cadenzate e un finale di growl spaccagola.
Il vero gioiellino del disco è l’acustica “Serravalle”, più vicina al cantautorato indie folk (con tanto di bonghi) che alle ballate nordiche dei Bathory. In questo contesto i limiti vocali del cantante emergono impietosi, ma è proprio questa fragilità a rendere l’atmosfera credibile, coinvolgente ed emozionante. Quando nel testo viene pronunciato il titolo del brano mi viene la pelle d’oca!
Sull’efficace “Vallòrc” (in dialetto come la metà del disco) possiamo ascoltare anche una voce femminile contribuire alla grande con un cantato assertivo, appassionato, competente e spoglio di ogni femminea leziosità. Molto apprezzato.
Coraggioso, di questi tempi, l’argomento affrontato ne “Il Lungo Viaggio”, dove si descrive la sofferta ma inevitabile necessità di emigrare verso terre più ospitali e promettenti. Così come gli altri spunti tematici del disco però, rimane sul vago, generalista, oleografico, risultando così modenacityramblerescamente stucchevole. Anche musicalmente.
Chiude una riflessiva “Densilòc” che sembra avventurarsi in quello che una volta veniva definito “rock alternativo” per poi crescere di intensità e offrire una parte interessante di chitarrine armonizzate prima di chiudere ad effetto un testo che si gioca il podio di peggiore del disco insieme a quelli di “Ander de le Mate” (medaglia d’oro), “…Solstizio” e “Il Lungo Viaggio”.
Dal punto di vista della produzione, curata nei rinomati New Sin Studios, ho apprezzato l’editing non maniacale delle chitarre, che lascia quel sano margine di imprecisione necessario a far respirare la musica. Peccato per i suoni campionati di batteria che si sostituiscono a quella acustica, creando contrasto ad esempio con gli strumenti a fiato dall’intonazione squisitamente imperfetta e inficiando l’effetto “true” dell’intero concept.
L’amore che manifestano per la propria terra è comunque forte e genuino e va a braccetto con quel rispetto verso la Montagna che nasce anche dalla paura, dalla consapevolezza che, per quanto la si sia vissuta, frequentata e rincorsa, resti sempre almeno in parte sconosciuta. Forestiera, appunto.
Un consiglio che mi sento di dare loro, da fratello maggiore, è di perdere meno tempo dietro a quegli straccetti finto folk che si mettono addosso e dedicarsi maggiormente a rifinire le canzoni, porsi domande e darsi risposte: sono un gruppo che potrebbe avere un senso. E non è poco!
Marcello M.