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Millennial Anthems you don't care about

TrackList
- Floodgate
- Sleepwalking Life
- The Stream of Disillusion
- Infinity - Enter the Wave
- In this Morning
- Empowering from Chaos
- Elegy for a New Day - part I
- Elegy for a New Day - part II
- 1000 Scars (by time)
- Don't you (forget about me)
- My Long Journey (2020)
DISEASE - Millennial Anthems you don't care about
(2020 - Autoprodotto )voto:
La scelta di un nome così inflazionato e di così difficile individuazione univoca su google non è dovuta all’ingenuità di una band di principianti, ma credo voglia essere l’orgogliosa testimonianza e rivendicazione di chi, come Flavio Tempesta, c’era già da prima. È vero, l’unica cosa rimasta dei Disease originari è solamente il suo attuale frontman, che assieme al fratello Massimo fondò il gruppo nel 1994, ma capisco il senso di voler rivendicare per sé il patrimonio di una storia iniziata quasi trent’anni fa. Per quelli che non c’erano: all’epoca Kurt era vivo (fino ad aprile, almeno…),“l’ultimo disco dei Metallica” era ancora il black album, i Megadeth ci provavano con “Youthanasia”, ma “Chaos A.D.” era esploso rimettendo tutto in discussione, i Testament rinascevano con “Low” e i Machine Head debuttavano insegnando a tutti un nuovo modo di fare thrash, mentre il Death Metal era in splendida (e variegatissima) forma. Sì, debuttavano anche i Korn, ma nessuno ancora ci faceva caso. E mentre mio fratello ed io compravamo e ascoltavamo quegli album (su cassetta!), la coppia di fratelli Tempesta era più avanti coi lavori, gettando le basi di una carriera fatta di quattro demo/promo e altrettanti album, il cui meglio è raccolto in questo densissimo disco compilation.
Per chi come me non li avesse ancora conosciuti, la prima dose di quello che loro stessi definiscono “Extreme Progressive Metal” viene somministrata con “Floodgate”, una composizione lunga, articolata, ricchissima, dove un’idea melodica viene esplorata e sviluppata in un ventaglio di opzioni molto vasto, ma che mantiene il senso della canzone e una notevole orecchiabilità fin dal primo ascolto. Ok, Flavio non è un cantante eccellente, ma oltre ad essere un chitarrista molto competente, devo riconoscere che si cimenta più che dignitosamente in tante vocalità differenti, dallo scream al growl, dal melodico emozionale confidenziale al parlato…
L’universo musicale di riferimento è quello in cui la mia generazione di over quaranta si riconosce, ma il risultato è un suono contemporaneo e per nulla nostalgico (mi ha richiamato i Palehørse, quelli di “Dead Wrong”).
Il basso di Leonardo Orazi si ritaglia spesso e volentieri (anche per l’ascoltatore!) momenti di vero protagonismo, apprezzabili grazie a scelte di mixaggio che restituiscono suoni veri ed esecuzioni autentiche.
Colpisce la lunghezza media delle composizioni, che in più occasioni orbitano attorno ai dieci minuti, indice di una certa libertà nel prendersi i propri spazi, sapendo di avere l’autonomia di carburante (idee!) necessaria.
Tanto per disorientarci un poco, il secondo brano proposto è, di base, una lunga e rilassata ballata crepuscolare, tra Alice in Chains e Anathema, che però viene continuamente aggredita dalle mutazioni genetiche dell’extreme prog che la deviano (con una naturalezza sorprendente!) verso forme più anomale ed esplosive.
Napalm Death, Soundgarden, Melvins, Carcass, Running Wild, Iron Maiden, Atheist, Skid Row… Questi sono solo alcuni dei nomi (poi ho smesso!) che man mano mi appuntavo durante l’ascolto di “Millennial Anthems…”, in una sorta di dejà-vu più emotivo che oggettivo, ma che credo possa aiutare a restituire l’idea di ricchezza, di biodiversità contenuta nel mondo dei Disease.
Non vorrei risultare fuorviante: non siamo di fronte a uno di quei gruppi che, essendo bravi a suonare, fanno un’insalatona cocktail di tanti pezzetti saccheggiati qua e là senza curarsi più di tanto del senso complessivo, puntando sull’effetto “wow” pirotecnico; qui la “canzone” vince sempre e tutte le sue parti, per quanto disparate, concorrono ciascuna a farla funzionare in modo molto organico. Quella che potrebbe apparire come una confusa eterogeneità da debut album è invece consapevole gestione di una tavolozza ricchissima di tonalità e materiali, verso un perfetto bilanciamento tra parti aggressive, ritmiche inusuali e sezioni melodiche di presa immediata.
Insomma, c’è più senso in un singolo brano Disease che in intere discografie di polpettoni sinfonicheggianti contrabbandati per “progressive”. Questa è musica che vale la pena di ascoltare, riascoltare e supportare. Poco utile a questo punto cercare di descrivere o analizzare ogni singolo brano, che vi invito caldamente a indagare e scoprire di persona.
Viene anche riproposta la versione della celebre “Don’t You (Forget About Me)” dei Simple Minds, cannoneggiata da arrangiamenti che la rendono un brano più interessante di quanto non fosse in origine.
E mentre vi digerite questo gustosissimo zibaldone di decenni di percorso musicale, sappiate che il quartetto romano ha già pronto un nuovo disco per il 2021, “Into The Red” (già disponibile in digitale su Bandcamp!), ma di questo parleremo in un’altra occasione…
Marcello M