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A State of Being Aware

LAST CENTURY - A State of Being Aware
(2020 - Maculata Anima Rec)voto:
Per chi li ha vissuti in prima persona, gli anni novanta protagonisti del revival che pare appassionare tanto gli attuali ventenni, non è che fossero poi un granché… Beh, se di certo non lo erano dal punto di vista estetico (i fratelli brutti e poveri degli anni 80?), forse invece quella sensazione di decadenza che percepivamo allora era esagerata (soprattutto alla luce del peggio cha sarebbe arrivato): sotto tanti aspetti “la nostra musica preferita” godeva di uno stato di salute eccellente e, dopo le ubriacature mainstream del decennio precedente, erigeva solide roccaforti fieramente ai margini del mercato di massa. E nell’underground, tanti fermenti, tanti tentativi, tanti entusiasmi… tante ingenuità che oggi fanno sorridere.
Il debutto dei Last Century mi ricorda proprio quei tempi e sotto molti aspetti sembra un demo anni novanta (beh, decisamente un buon demo, per gli standard sonori del periodo): grondante di quella naïveté che rendeva accettabili anche copertine e grafiche irricevibili, composizioni acerbe, esecuzioni imperfette e identità incerte. Tutte cose che, ahimè, nella spietatezza globalizzata di questi anni ’20 sono decisamente meno perdonabili. In virtù dell’abbattimento dei costi e della diffusione dei saperi, ci si aspetta la professionalità anche dall’amatore, che deve simultaneamente essere in grado pure di comunicare e promuovere il tutto. Molto bello, molto potente. Ma niente piscina con l’acqua bassa: nuoti subito in quella alta. E con gli squali.
E così tutte le buone idee che Roberto Biasin (chitarra e voce) e soci provano a mettere insieme, anziché fermentare in una calda e sicura serra, sono subito esposte in campo aperto, sotto a una cruda luce solare che ne rivela pregi e, ahimè, difetti.
Nel thrash-prog proposto dai quattro vicentini colpisce la presenza di ispirazioni musicali decisamente non contemporanee, spesso antecedenti alla nascita dei giovani musicisti stessi. È infatti con sorpresa che ho trovato echi di Edge Of Sanity e persino dei misconosciuti (validissimi!) lavori anni novanta degli Holocaust (“Covenant”, ad esempio…)!
La partenza con “Eternal Regret” è molto buona, tra riff convincenti, un buon growl (che caratterizzerà la stragrande maggioranza delle canzoni), ritmi composti (bella l’alternanza 7/8-8/8), un rallentamento doom di grande atmosfera con fraseggi inquietanti e un finalino strumentale con assolo un po’ stentato ma dalle buone intenzioni.
Un colpo al cuore per l’emozione me l’ha dato l’inizio di “Human Deception”, che mi ha subito portato alle orecchie i primissimi Fates Warning. La sensazione viene confermata anche da altre sezioni del brano che però, purtroppo, prevede anche delle parti con voce pulita… ed è un vero disastro! C’è spazio anche per un piccolo assolo di chitarra acustica veramente brutto (fuori tonalità?). Ed è un peccato, perché il riff sincopato-interrotto non era affatto male!
Mi piace come queste composizioni suonino vere: sembrano nate e assemblate proprio da prove dal vivo, non su uno schermo di computer. Anche le esecuzioni restituiscono la stessa sensazione di onestà, con tutte le sacrosante imprecisioni del caso.
Ugualmente variegato anche il brano successivo, “The Black Lodge”, che punta però su una maggiore aggressività, ben convogliata in accelerazioni e rallentamenti, con buoni ganci musicali, arrangiamenti interessanti (batteria soprattutto) e struttura anomala, che rinuncia ancora una volta alla forma canzone tradizionale. Assolo zoppicante.
Un breve interludio realizzato con due arpeggi fatti suonare al contrario e siamo subito nella seconda metà del disco con “Bound To Lies” che conferma il marchio di fabbrica con un susseguirsi di rallentamenti epici e sfuriate che evocano i primi Dark Tranquillity.
Anche “Enemy Zone” ha una struttura atipica e molto interessante, con una sorta di ritornello groove il cui potere viene però annichilito dalla sequenza con cantato melodico che, in soli 10 secondi, rischia di squalificare tutti bei riff complicati della prima parte e pure i tentativi melodici della sezione acustica conclusiva (con un assolo sicuramente da rifinire, ma pieno di pathos). Nonostante tutto resta decisamente un buon pezzo, che in mano ad un gruppo come i Kreator, ad esempio, farebbe la sua porca figura.
Sì, i Last Century riescono a comporre dei gran buoni riff, capaci di scolpirsi nella memoria e persino di entusiasmare, quando ti ritrovi a canticchiarli giorni dopo, ma sul piano del songwriting mi sembrano esserci ampi margini di miglioramento.
La lunga strumentale “Journey Into Regrets” fa un po’ da calderone in cui gettare tutti gli avanzi di brani abortiti, che vengono cuciti insieme in un simpatico Frankenstein di Heavy Thrash melodico che non dispiace, ma neppure entusiasma. Numerosi “click” digitali, probabilmente dovuti alle cuciture.
Azzeccata la scelta del singolo “Slaves of Time”, che effettivamente ha un piglio e una credibilità maggiori rispetto al resto del CD, compositivamente ed esecutivamente, come fosse tutto “più a fuoco”: assoli, arrangiamenti e intenzione. Anche il cantato melodico è decisamente meno terribile che altrove, prova evidente di come possano essere sufficienti un po’ di esercizio e tanta sana autocritica per un grande salto di qualità nelle prossime proposte discografiche. Curiosa e anacronisticamente fiduciosa (in un periodo storico di soglia di attenzione erosa all’inverosimile) la scelta di relegarla in chiusura dell’album.
Sembra che i ragazzi abbiano davvero (anche nelle interviste e nella propria presentazione) poche cose da dire… Eppure c’è qualcosa di genuino, raro e prezioso che apprezzo profondamente in questo disco, che risulta - non so quanto consapevolmente - ostinatamente diverso, fuori dal tempo… “puro”, se mi si permette di sbilanciarmi un po’, da vecchio nostalgico.
Gli anni ’90 tornano a battere cassa anche nel videoclip di “Slaves of Time” che, nonostante alcune velleità cinematografiche quasi apprezzabili, presenta il gruppo in tutta la sua disarmante ingenua fragilità e sprovvedutezza, fotografate perfettamente da quel grande garage vuoto ma pulito dove ciondolano simulando una performance convinta: i jack delle chitarre sono infilati davvero negli strumenti, è vero, ma la loro estremità opposta giace esanime, inerme e inoffensiva sul pavimento in cemento, dove le gomme dell’auto del papà avranno cigolato tante volte. Più forte di loro.
Comunque non credo affatto sia una formazione da buttare, tutt’altro! Temo solo che paghino il prezzo di un’esposizione prematura, quando invece qualche tempo in più di analisi e riflessione su ”chi si è, cosa si vuole e come ottenerlo” ci avrebbe permesso di apprezzarli in una forma più credibile. Coraggio!
Marcello M