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Ten

TrackList
- The Black Plague
- Zora
- Under The Satan's Sun
- The Rebel God
- Temple Of Rain
- Ride The Dragon
- Suspiria
- Heretics
- Whre The Wild Roses Grow
- The World Is Doomed
- Lucifer
DEATH SS - Ten
(2021 - Lucifer Rising)voto:
6 maggio 1988. I miei compagni di liceo fanno colletta per il mio diciottesimo compleanno e mi regalano due vinili. Uno è “Reign in Blood”, l’altro “The Story of Death SS – 1977/1984”. Il primo l’avevo espressamente richiesto io, il secondo l’aveva scelto un mio amico dedito all’hard rock settantiano. Quella intrigante commistione tra dark wave e primi Black Sabbath mi affascinò molto ma la mia strada era segnata da una ricerca delle sonorità più estreme e serrate. Da lì a qualche mese avrei avuto per le mani “Scum” dei Napalm Death. Sì, le date di pubblicazione non vi tornano ma ero un ragazzo di provincia e i tempi di recupero delle pubblicazioni erano ben altri rispetto ad oggi.
Con estremo rispetto mi sono accostato all’ascolto dell’ultima fatica di uno dei pilastri del metal italiano, consapevole dei limiti dei miei riferimenti musicali, ritrovandomi ad apprezzare e ritrovare, in forma del tutto nuova ma nella sostanza immutata, le stesse sensazioni del mio primo incontro con questa icona dell’horror-metal.
Sulle prime sono rimasto spiazzato dall’incredibile “luminosità” delle composizioni e delle atmosfere e dall’apparente “semplicità” della proposta. Oltre che dell’apparente assenza di “minaccia” che, superficialmente, si intende associata ad una proposta “horror-metal”.
A dimostrazione che “le maschere” indossate dai nostri sono un marchio di continuità storica mentre il loro immaginario sia rivolto ad altri orizzonti è il concept teo-sofico (filosofico) riportato nelle note di release: “un nuovo ragionare sull’oscurità e la morte”. (mia libera traduzione)
“The Black Plague” con le sue atmosfere sospese e solide fondamenta catchy di strofa e ritornello, articolate in tre stanze, ci introduce ad un lotto di canzoni in cui immediatezza e stratificazione convivono su diversi livelli. Qui il rincorrersi di temi e soluzioni ritmiche reinterpretate ed arrangiate con gusto prog risulta più palese risultando in una composizione complessa ma perfettamente leggibile, infondendo soluzioni di sapore maideniano a quell’approccio espressivo US metal dal forte afflato anthemico. Non mancano soluzioni ardite, quali la ripresa del coro sacerdotale e voce femminile bizantina appena accennato in apertura che va a costruire un intermezzo prima e una chiusura poi che trasfigura il senso del coro anthemico in un salmodiare ipnotico e ritualistico. Soluzione che verrà ripresa e rinforzata più avanti, arrivando a sfiorare la psichedelia con la sua capacità di suggerire all’ascoltatore uno stato di trance.
“Zora”, introdotta da sinth da horror anni 60, sorprende con la sua partenza hard rock energico e strafottente, una doppietta di riff che coniuga ZZ Top, Guns e Rob Zombie, per poi aprire in un chorus dal sapore Fab Four. Soprendente sia il riff di sinth in contrappunto al ritornello anthemico che l’apertura, che vede Romina Malagoli ammaliarci con vocalizzi floydiani.
Con “Under The Satan’s Sun” vediamo power chords minacciosi rafforzati da oscure campane aprirsi in un tema di sinth electro-trance. La voce di Steve si libra narrativa e aspra su un tema di tom che raccoglie la pulsazione dei sinth, che diventano rarefatti accenni ambient, per aprire in un ritornello che ha il sapore di un musical hippie settantiano. Un gioioso sabba luminoso che riscrive l’immaginario satanista esattamente come si può intendere il culto del sole visto dall’interno: un culto pagano della Luce che rifugge dalla oscurità morbosità dei monaci miniaturisti. Con questa canzone i Death SS hanno fatto quello che ha fatto Ari Aster con il suo “Midsmommar”.
Un drone grave di sinth e una strofa gregoriana ribassata ci introduce a “The Rebel God”, brano dal retrogusto dark wave elettrificato che non rinuncia nel bridge e nel chorus a riprendere quel sapore di metal da arena, aperto e celebrativo.
“The Temple Of The Rain” raccoglie l’approccio electro, affidando l’apertura ad un arpeggiatore sinth aggredito (completato) da robusti ingressi in palm muting e cassa, per poi esplodere in una composizione più compiutamente (post) dark wave che si irrobustisce nel bridge per poi aprire in un ritornello maestoso. Non ho potuto fare a meno di pensare ai The Cure di “Rain” anche se le somiglianze si riducono al godimento emotivo che mi ha suscitato l’ascolto (o forse al fatto che entrambi siano inni a questo elemento primordiale che infonde la vita nella Terra). Catartico il ritornello reiterato con le voci unisone di Steve Sylvester e Romina Malagoli, cui si deve anche un intervento solista ammaliante. Composizione speculare, come è ovvio, all’inno al Sole della traccia dedicata al Sole di Satana.
“Ride The Dragon” è una cavalcata power-speed con echi saxoniani impreziosita da una cadenza tritona nel riff d’apertura/bridge e da una tessitura di sinth dalle tinte retro horror pronte a virare verso un accenno di electro-trance che ci sprofonda in un drop ossianico prima che un solo di sinth apra la strada ad un classico duello di chitarre tra Al De Noble e l’ospite Andy Panigada.
“Suspiria (Queen Of The Dead)” apre con una parafrasi del tema del film di Argento affidata ad una fisarmonica che pare suonata in una birreria tedesca. L’andamento è sognante con le sue strofe quasi floydiane e un chorus che evoca il Nick Cave più lirico (non in senso operistico). Le parti strumentali sono impreziosite dai licks e solismi di Ghiulz Borroni prima di concludere in una ripresa del tema “folk” iniziale in una sezione in cui l’accordion dialoga con il violino di Roberto Piga a sostenere la voce di Simona Fasano che completa una sezione pervasa da una sottile quanto elegante inquietudine.
L’ombra di Nick Cave torna prepotente nella ballata “Heretics”: certo la voce di Sylvester è arrochita in maniera differente ma l’andamento mi ha ricordato molto la metrica e le atmosfere di “Where the Wild Roses Grow”. Credo che la magia di questa release sia proprio la capacità dei Death SS di riportare nel proprio universo musicale temi musicali ormai divenuti iconici, donando loro una sfumatura di magica coerenza nonostante la mente dell’ascoltatore vada a rintracciarne l’ispirazione in canzoni iconiche. O, meglio. Riferendoci al concetto platonico di “idea”, sembra che i Death SS stiano attingendo ad una fonte molto vicina all’archetipo puro e ne stiano dando testimonianza: l’arpeggio d’apertura di “Heretics” ci introduce in una “Casa del sole nascente” del tutto nuova eppure familiare e quell’accenno solistico, al netto di una risoluzione diminuita, ricorda certi Litfiba. La composizione si conclude con un inno che, ancora, mi ha riportato alla mente “Hair”.
“The World is Doomed” apre con un arioso electro-ambient affidato ad un arpeggiatore sinth e una chitarra clean resa sognante dai ritorni del delay, prima che robusti power chords irrompano sulla scena sostenuti da un lavoro sui toms che ci introduce ad un mid tempo strutturato da fraseggi di chitarra di sapore techno-thrash. La strofa alleggerisce con temi pianistici su un ritmo teso sugli hi-hat e sinth per esplodere nel chorus in cui le parti vocali confermano la lora capacità di costruire temi anthemici di grande efficacia e interesse. Una composizione retta da una sapiente alternanza di vuoti e pieni mantenendo una tensione ritmica costante anche nei momenti più rarefatti. Ipnotica come sempre la chiusura affidata alla reiterazione del chorus.
Chiude le danze “Lucifer” che ci accoglie con un coro degno della soundtrack di “The Omen” quanto dei Carmina Burana, subito rinforzato da power chords che sembrano emergere dalle profondità infernali. Composizione che, con qualche suggestione dark wave nel cantato delle strofe, è un metal anthemico e luminoso. Come è giusto sia per il portatore di luce.
Ed ecco che i Death SS ci danno “un nuovo ragionare sull’oscurità e sulla morte” con un disco che ad una lettura distratta può sembrare “di mestiere” ma rivela un’attenzione sottile allo scardinare i clichès del metal, intessendo nelle sue forme espressive più catchy una ricerca volta a recuperare forme espressive “seminali” e nel tempo rivoluzionarie (dark wave, psichedelica, electro trance, ambient) e lasciando trapelare quella gioiosa serenità che i mostri, così vicini all’essenza infantile dell’essere, sanno avere.
Samaang Ruinees