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The Third Impact

GUNJACK - The Third Impact
(2021 - Autoprodotto)voto:
Ebbene si, sono qua a scrivere dei Gunjack. Un gruppo, ovviamente italiano, con forti influenze del metal e del rock anni ’70-’80 ma non solo. Sono veramente un mix di riff e ritmi che mi hanno colpito, lasciandomi senza parole e proprio per questo che stavolta voglio passare direttamente all’album, senza presentarli, che oramai sono conosciuti e sappiamo benissimo, la potenza che sono. Vorrei che immaginaste di essere nel deserto americano Black rock e mettete le cuffie, spegnete la luce e lasciate solo le tapparelle aperte. Iniziamo il nostro cammino…
“The Third Impact” è composto da ben 14 tracce (veramente tante) ed inizia come mi aspettavo da questo gruppo, con un intro molto dark: “Dagon”. Sinceramente ho fatto molto fatica a capire le parole e non ci sono riuscito, ma il sound era molto bello e decisamente una buona entrata per il secondo brano che inizialmente sembra incentrato sul power metal mixato con un po’ di dark. Qualcosa cambia con l’entrata della voce, che mi porta a pensare a Lemmy. Una buona canzone che impronta l’album su una direzione unica.
Una sirena di allarme ri-prende la mia attenzione che si era persa per poco nella canzone prima.
“Twirling on your Grave” è decisamente una canzone di carattere che riporta molto ad un heavy metal rock, con una chitarra che delizia il tema della canzone, con un assolo degno di tutta l’attenzione. Finendo bruscamente lascia spazio a “The Tournament” nella quale si sente un minimo di cambiamento sul riff ma non sullo stile. Questa voce che cambia in un batter d’ali, da rock a dark. Un’iniezione di personalità e rischio di composizione ma che vale la pena ascoltarla a fondo.
Andando avanti ci imbattiamo in due tracce che sembra di aver già ascoltato in quelle precedenti.
Sto parlando di “Hypnotic Desease” e di “Destroy the Seventh Seal”. Il sound non manca assolutamente e non vanno fuori tema, ritmi e cadenze sono davvero ottimali e piacevoli ma credevo di poter continuare l’ascolto con qualcosa di diverso da ciò che avevo ascoltato.
Arrivati oramai, alla metà del nostro cammino, ci troviamo davanti ad un po’ di relax, come se l’album volesse finire con i poco più di due minuti di “Coma” per lasciarti lì, ma non è così.
Vieni risvegliato da un’energica e diversa traccia: “Meltdown”. Un continuo davvero inaspettato e sorprendente.
Questa seconda parte dell’album, cambia e sembra che metta una marcia in più.
“Nuke to be Sure” esprime una diversità a quanto ascoltato fino ad ora. Ritmi e riff diversi ma sempre riconoscibili nei GunJack, e quando si sente quella chitarra heavy metal che da armonia al contorno, tutto si esalta.
Le sorprese non sono finite qua, anzi.
Leggendo il titolo “Metal Influencer” mi aspettavo un qualcosa di commerciale e ridicolo. Un sorprendente inizio musicale ancora differente sancisce una voce sempre hard rock, ma stavolta le parole sono in italiano. Una delle mie favorite. L’italiano nel metal non è affatto facile inserirlo ma i GunJack ci sono riusciti alla grande.
“The Thermopylae” ci riporta con i piedi per terra, ricordandoci i grandi classici. Grande mix all’interno che mi fa pensare a molti gruppi che hanno fatto la storia.
Addentrandoci al gran finale, troviamo “Heart of Tank”, che mi fa pensare: “ma che finale ci aspetterà?” Ancora una volta, mi ha dato input diversi, di quelli ascoltati fin ora e non di certo banali.
Leggendo il titolo della penultima canzone: “The Knights in White”, non poteva essere differente il riff. Ben eseguito e ben strutturato, con un cambio eccezionale al momento dell’entrata della solita voce ma che poi fa girare la testa nell’assolo di chitarra.
Adesso mi aspetto un finale con i fuochi d’artificio.
Gli ultimi passi sono stati entusiasmanti e non essendo un amante delle bugie in questo ultimo brano mi aspetto verità e certezze ma non favole.
In effetti raccontano bene la “bugia” musicale.
Le aspettative erano dark, trainate da un riff satanico ed invece, un sound pulito ma cupo, ci porta a percorrere questo ultimo passo verso la valle dei tripudi.
“Lie of God” ci delizia con un grande assolo di chitarra, con i suoi quasi sei minuti di musica che dopo tredici canzoni e le orecchie che bruciano, vorresti solamente spegnere tutto e tornare a vivere la realtà, ma questo non può accadere, perché questa traccia ti tiene inchiodato e paralizzato di fronte a questo finale degno di un album ben costruito.
Ho trovato un album spaccato in due parti: la prima che tendeva ad andare sul banale e con un sound piatto, senza uscire fuori tema ma che non mi portava a niente di diverso che avessi già ascoltato prima. La seconda parte invece, tra l’altro ben introdotta da “Coma”, rendendo l’album finito all’ascolto, ci spara dentro ad un sentiero dove i GunJack hanno voluto differenziarsi ancora una volta. E devo dire che ci sono riusciti, nonostante le aspettative fossero scese in basso.
Un album che ha da raccontare molto e che riesce ad essere semplice ma molto interessante.
Buon Cammino nella valle dell’ascolto.
Fefo Wylde