Ricerca
Contattaci
Per segnalare concerti o richiederci una recensione delle vostre band, scriveteci compilando il modulo in questa pagina
Accesso utente
Chi è on-line
Control-Z

POST GENERATION - Control-Z
(2022 - Luminol Records)voto:
Ancora una volta è un gruppo decisamente “non Heavy Metal” a bussare ai nostri portoni d’acciaio e devo dire che è anche un po’ lusingante la richiesta di un parere critico da parte di chi non non è avvezzo a masticare certi suoni (me). Grazie quindi per la fiducia ai POST GENERATION, che spero perdoneranno la mia scarsa capacità di trovare riferimenti musicali pertinenti alla loro proposta, che potrei definire una sorta di post progressive dalle molteplici sfaccettature, decisamente ben suonato.
Nonostante un nome così generico ed evanescente, che si perde, si confonde e si dimentica con grande facilità nel marasma della lingua di oggi, il progetto dimostra una forte personalità e un grande impegno non solo in sede di composizione e arrangiamento ma anche di gestione visiva e concettuale dello scenario che ci raccontano: un classico mondo distopico in cui succedono tutte quelle brutte cose alienanti che vi potete bene immaginare…
Quindi? “Control-Z” è un concept-polpettone pretenziosetto e sofisticatamente indigesto? Beh… forse un pochino sì, ma è anche un ascolto piuttosto piacevole e, per chi vorrà concedergli i numerosi ascolti necessari e avrà voglia di addentrarsi nella vicenda, un potenziale banchetto.
Nati come un progetto solista di Matteo Bevilacqua, polistrumentista dal passato metallico, i POST GENERATION sono ora qualcosa di ben più strutturato e ramificato, con collaborazioni anche internazionali.
Il brano di apertura, dopo una spianofortata dal sapore jazzato, mi ha ricordato subito i Rush degli anni 2000 anche se qui (e in tutto il disco) la voce è sempre molto garbata, controllata e leggera, come se in fase di registrazione il nostro Matteo avesse timore di disturbare i vicini. C’è però un’energia ritmica raffinata che pervade l’album e che gli conferisce una spinta e una pulsazione che manca invece a tanti dischi tradizionalmente Metal. Batteria leggera e frizzante sulla seguente “About Last Night”, una canzone dilatata e soffusa, con tanta aria tra gli strumenti, che pur crescendo di intensità nei minuti finali risulta un pochino prolissa. L’intimismo epico dei sette minuti di “You’re The Next In Line” ci porta per mano attraverso tante scene musicali differenti, con tanti cambi di atmosfera, stile e strumentazione. È anche il primo brano a includere la voce di Michaela Senetta, che si spalma nella morbidezza generale prima che la composizione aumenti di intensità, spingendoci verso la parte strumentale e gli assoli, tutti pregevolissimi ma non imprescindibili.
Inquietudine e insonnia nella notturna “What’s The Worry”, dove la voce si riduce ad un parlato recitato e possiamo apprezzare un bel lavoro di soundscaping, fino all’arrivo delle sezioni cantate, in un misto di leggerezza indie pop venata di oscurità.
“The Cat and the Chicken” ha la giusta dose di “locura” che ci si aspettava dal titolo e con la sua struttura spezzettata, nervosa e dissonante è un piacevolissimo diversivo alla nuvola sonora azzurrina che avvolge il disco.
Ho un’idiosincrasia per i loop elettronici e per questo sulle prime “White Lights and Darkest Patterns” mi ha fatto storcere il naso, ma ho anche sorriso di piacere quando è entrato quella sorta di sintetizzatore distorto dal timbro così caratteristico da dare un po’ di identità ad un brano altrimenti troppo anonimo, dove il consueto cantato anemico fatica a coinvolgere l’ascoltatore. Sembra che nelle intenzioni si voglia ammiccare agli Anathema più pop…
A sbilanciare ulteriormente il disco sul versante soft abbiamo la ballata “Could It Be You”, che scivola soffice e malinconica, senza riuscire ad esplodere.
A salvarci dall’effetto soporifero arriva la title track, con un andatura ritmica in tensione fin dalla prima parte pinkfloydiana, che cresce nella sezione successiva elettrica e distorta. Mancano i temi melodici memorabili, dato che tutto rimane sempre all’interno di un impasto armonico molto convenzionale, dove non c’è nulla di sbagliato ma anche poco di entusiasmante. È così anche nella successiva “Nathalie”, dove torna la voce femminile, che si propone in fraseggi professionali ma un po’ scolastici. Anche questa canzone sembra più voler acquerellare un’atmosfera che coinvolgere melodicamente. L’album ha un suo sapore, un’atmosfera cittadina, nebulosa, sospesa, leggermente anonima e alienante, come la facciata di vetro di uno dei palazzi della copertina. Magari questa sensazione è esattamente quella che i ragazzi volevano evocare, ma forse “This Cannot Work” del tutto e probabilmente sarebbe meglio “Raising The Bar”.
Ho voluto intendere come un intelligente gesto di autoironia il tema della conclusiva “Unforgotten Wasteland” (“ninna nanna ninna oh…”) che con la consueta eleganza garbata apprezzata finora, ci rimbocca le coperte, ci racconta la fiaba della buona notte (“Once upon a time…”) e chiude i nostri occhioni sonnacchiosi, nella speranza che, al mattino, il sole svapori questo strano sogno.