Gli Infall tornano sulle scene a cinque anni dal loro lavoro d’esordio (“Silent”).

E lo fanno in grande stile.

Considerate solo una cosa: dietro le consolle ci sono Kurt Ballou (High on Fire, Nails, Trap Them) e Alan Douches (All Out War, Cannibal Corpse, Mastodon).

E questa è, indubbiamente, la cartina tornasole di quanto i nostri intendano investire nel loro progetto.

La serietà della proposta, peraltro, e per fortuna, non si ferma alla produzione.

La produzione fa da contorto a tanta, tanta sostanza, sia in termini di freschezza ed originalità della proposta, sia in termini di capacità tecniche e compositive.

Il terreno sul quale si muovo gli Infall è praticamente inclassificabile, se non, appunto, nella sua inclassificabilità.

E non è un gioco di parole: la schizofrenia compositiva la fa da padrone: post hardcore, math, follia allo stato puro. A volte mi ricordano un po’ i “The dillinger escape plan”: a dire il vero più nell’approccio che nella proposta musicale in se stessa.

Insomma ragazzi: ritmiche sempre imprevedibili, riffs geniali e claustrofobici, voce urlata e disperata. Un continuo saliscendi, stile montagne russe.

Si ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte ad una creatura che vive di vita propria. Come se i musicisti fossero solo i “genitori” di un mostro creato in laboratorio e che, di punto in bianco, ha iniziato a muoversi per conto suo, lasciandosi alle spalle chi gli ha dato vita.

Ed è un mostro che va totalmente e letteralmente dove gli pare, irresistibile nella sua furia, e nella sua voglia di cambiare pelle e forma ogni due per tre.

Gli Infall sono una band di caratura internazionale. I confini italici gli vanno decisamente stretti.

Hanno una personalità ed una maturità impressionanti.

Uno degli ascolti che, ultimamente, mi ha colpito di più.

Maurizio Gambetti