Voto: 9
Finalmente per i Prodigal Sons è terminata l’attesa di uscire allo scoperto con il debut album “On Our Last Day” ,mentre per i fans che già conoscevano la band grazie ai loro primi due demo del 2007 e 2009 (da quest’ultimo hanno visto la luce alcune delle canzoni che compongono l’album, ossia “Banquet Of The Gods”, “Zeus” e “The Sacred Land”, già “Horus”) la pazienza è stata finalmente premiata dalla sempre volitiva My Graveyard Productions che immette sul mercato un prodotto che risalta l’intenzione di continuare a credere, già dalle prime battute del 2012, nel nuovo che avanza e da quello che risulta ascoltando il primo album della giovanissima band bresciana si può tranquillamente affermare che ne è valsa la pena attendere.
“On Our Last Day”, è bene sottolinearlo fin da subito, non è il classico disco fruibile al primo ascolto; i Prodigal Sons infatti nonostante la loro età anagrafica che in certi casi non supera i vent’anni, rivelano una capacità esecutiva e una concezione dell’heavy metal già molto matura che li eleva a uno status di band con una marcia in più. Laddove la maggior parte dei colleghi ricerca infatti l’immediatezza e la velocità di esecuzione, i Prodigal Sons si muovono esattamente nel senso opposto, tirando fuori dallo scrigno dieci song di heavy metal dalle sfumature epicheggianti in scuola Virgin Steele arricchite dal classicismo di intenzione maideniana, particolarità entrambe che non sono affatto definibili con sufficienza come veri e propri plagi ai danni delle partiture di De Feis e Harris, ma contrariamente delle ideologie che vengono arricchite in un contesto assolutamente pregno di personalità. Che sopratutto il tocco magico di David De Feis abbia in un certo qual modo fatto da lezione ai cinque ragazzi ne arriva una fonte attendibile anche a colpo d’occhio guardando la sezione grafica che riveste l’involucro del disco, in cui forti sono i riferimenti all’epicità ellenica già a suo tempo forte ispirazione dell’epic band d’oltreoceano guidata dal vocalist italo americano per alcuni dei suoi più celeberrimi album, e come si vedrà in seguito anche gli spunti delle canzoni fungono da tributo alla storia degli dei dell’Olimpo. La partenza viene scandita dai rintocchi cadenzati di “1.9.8.4”, intro strumentale inframezzato da uno spezzone parlato estratto dal film a cui lo stesso titolo fà riferimento, “Orwell 1984” appunto, che lascia campo libero alle arie ritmate di “V” in cui subito viene a galla l’intenzione dell’epicità in chiave Virgin Steele echeggiante nel suo splendore e personalizzata dalla squillante e brillante voce di Gabriele Tura, mentre ottima si rivela la sezione d’asce composta da Andrea Folli e Daniele Galante, quest’ultimo autore di un solo superlativo nel centro della song, così come meticolosa si segnala la parte ritmica di Massimiliano Luterotti al basso e di Matteo Tura alla batteria.
I Prodigal Sons vengono invitati direttamente sull’Olimpo per partecipare a “Banquet Of Gods,” una celebrazione dell’epicità allo stato puro a cui non vuole mancare persino una vecchia conoscenza militante da anni ormai nel circuito del metal italiano e che ama spesso marchiare a fuoco il proprio passaggio con la sua tuonante chitarra anche quando i gozzovigli dell’heavy metal non riguardano la sua band madre; si parla di quel bonario mascalzone di Guido Tiberi (Axevyper, ex Assedium) che piazza un sublime solo centrale su cui riprende successivamente a fare da contraltare la penetrante ugola di Tura che dà tutto se stesso in questo contesto. Il cammino prosegue sulla melodica “Let’Us Speak” assistita da lontano dal fantasma dei Maiden che lancia qua e là dei suggerimenti iniziali lasciando al tempo stesso che la band trovi la sua strada e lo fa in maniera egregia portando avanti un lavoro certosino e complesso basato su tempi spezzati che rendono la song ricca di spunti interessanti e mai banali. L’oscura presenza spirituale della vergine di ferro elargisce consigli anche sugli input iniziali di “Deception From Heaven” sui quali successivamente la band imbastisce un proprio rivestimento sonoro che sfocia in solenni arie epicheggianti degne di una band che si è già messa alle spalle anni di attività, cosa che i Figli Prodigi sono riusciti a realizzare solo dopo pochi anni di attività, e scusate se è poco. Gli Dei sembrano gradire così tanto la loro proposta che lo stesso padre dell’ Olimpo torna a invitarli a corte per un po di sano divertimento che i baby rockers elargiscono con l’inno “Zeus”, a cui le le antiche divinità della cultura ellenica rispondono indossando bracciali borchiati e riunendosi tutte insieme sotto al trono regale lanciandosi in uno spensierato headbaging con le corna in alto in segno di approvazione verso questo manifesto d’amore di heavy dalle tinte epiche profuse con trasporto e sentimento, qualità riscontrabili anche nei soli che infarciscono la song.
Un mesto di suono di tastiere apre la strada alla malinconica title track, seguita da una prova da applausi di Gabriele Tura che in questa sede si dimostra superlativo nel riuscire ad ammantare l’ambiente circostante di un alone cosmico con la teatralità appassionante emanata dalle sue corde vocali, che poggiano su un velo aggraziato in cui a scambiarsi armonie sono chitarre e tastiere, queste ultime recanti il ricordo tangibile del David De Feis più introspettivo. Suoni dell’antichità sono i padroni su “Sacred Land”; dall’antica Grecia si scende in Egitto ad ascoltare i Prodigal Sons nella loro nuova storia e ad aspettare troviamo un altro ospite illustre, ovvero sia John Falzone Jr. degli heavy metallers americani Steel Assassin, la cui voce fa da contrappeso a quella di Tura nel ritornello, voce quella del giovane bresciano che riesce a trovare un range credibile anche su tonalità più aggressive e meno altisonanti, in stile Peavy Wagner, su cui si stagliano una serie di cambi di tempo atti a infiammare gli stages su cui si troveranno a difendere l’heavy metal i guerrieri lombardi. Si riaffacciano le melodie sulla cadenzata “I Dream Of Hope”, che forse paga un leggero dazio in più ai Maiden ma riesce lo stesso ad accattivarsi le simpatie di chi ascolta, ponendo la parola fine con la reprise di un classico dei cult heroes floridiani Crimson Glory, ossia “Red Sharks” e anche in questo contesto i Prodigal Sons riescono a mantenere le premesse senza deludere le aspettative, riproponendo la canzone senza sbavature e con una classe di cui perfino il compianto Midnight apprezzerà da dietro le nuvole.
“On Our Last Day” ha il merito di lanciare nel mercato una valida proposta nostrana che ha le carte in regola per poter già alla sua età competere con i più grandi cavalli da corsa della scena metal mondiale, mentre dal canto suo la band con il loro debut album hanno il merito di presentare un prodotto definibile senza indugio alcuno perfetto sotto il punto di vista della maturità, esecutiva e compositiva; in questo tributo alla storia antica e moderna c’è tutto quanto possa soddisfare i palati che ricercano l’heavy più puro, quello più epicheggiante e anche quello più progressivo, per cui seguite il mio consiglio; fate vostro “On Our Last Day”, prodotto al 100% italiano.
Francesco Running Wild
TrackList
01. 1.9.8.4
02. V
03. Banquet Of The Gods
04. Let Us Speak
05. Deception From Heaven
06. Zeus
07. On Our Last Day
08. The Sacred Land
09. I Dream Of Hope
10. Red Sharks
- Anno: 2012
- Etichetta: My Graveyard Productions
- Genere: Heavy Metal
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