Ogni sabato che arrivava sul calendario, durante gli anni turbolenti della mia adolescenza, era quello sempre del secolo, era quello che dopo questo non si aveva più altro tempo né futuro nella vita di tutti gli esseri umani. Mi ricordo, che pieno di chissà quale veemente spinta rivoluzionaria tendente perennemente a cambiare le sorti del mondo, mi preparavo per affrontare un nuovo fine settimana il quale, per forza di cose (età, soldi, impegni scolastici), si riduceva concentrato nel sabato sera spesso passato in un locale vicino a Viareggio frequentato da personaggi ben poco raccomandabili.

Questo “Digital Dreams” della band romana, nata da un’idea dell’ex Witches Of Doom Fred Venditti, mi ha riportato a quelle atmosfere dense di alcol, sigarette e a volte di qualche altra sostanza non propriamente legale; l’ambientazione era quella dei metà anni ottanta, arredi al limite del disastro post nucleare e la colonna sonora, oltre che da suoni provenienti da chissà quali menti di chissà quali galassie, era intrisa di decadentismo, di oscurità, di abbigliamenti post punk. In “Digital Dreams” si avverte un po’ tutto questo, se si chiudono gli occhi si possono rivedere immagini sbiadite provenienti dal passato fatte con una Polaroid, sentire voci, gergalità, udire le urla di giovani che volevano ancora prendere a calci (nel vuoto) il mondo intero, la tanto odiata società: un misto fra rabbia e disillusione, un non sapere precisamente dove si stava andando (forse qualcuno lo avrebbe scoperto un decennio più tardi a proprie spese). Ed ecco che per il naturale corse delle cose, si rimaneva affascinati da certe sonorità, si cercavano determinate tematiche, rapiti da mondi che ancora apparivano distanti e ben poco somiglianti a quelli così vicini grazie a un tocco sul mouse del pc: non si può rimanere indifferenti, per esempio, dopo avere ascoltato “Electric Rain” la terza traccia che ben sintetizza quello che ho appena descritto.

Spesso ci si imbatteva in un qualcosa che non si riusciva veramente a descrivere e a collocare e quindi, come se fosse una cosa che doveva avvenire in automatico, la catalogavamo nel settore episodi necessari della vita e la derubricavamo in un amore scontato, automatico per l’appunto, senza minimante sapere cosa stavamo sperimentando. “Automatic Love” è lì con il suo incedere da film western a raccontarci quanto desideravamo tutta quella sofferenza da poeta romantico fine ottocento che però non riuscivamo mai a tradurre se non con parole o gesti altrui.

Di questi dieci pezzi (l’ultimo è una cover, ben riuscita, dei Lords Of The New Church) preferisco le parti maggiormente più intimistiche, quelle che presentano l’anima oscura dei quattro romani, dove meglio si adatta la voce profonda e calda di Fabio Oliva.

Un gran bell’esordio questo degli Artificial Heaven, una band che  è riuscita a rimodulare e ripresentare tutta quella scena New Wave, Dark e Post Punk, evitando di cadere nel ridicolo, nel già sentito: può sembrare un paradosso, ma quello che hanno scritto Venditti e Oliva (magicamente supportati dalla sezione ritmica di Lorenzo Valerio alla batteria e Stefano Romani al basso) ha un che di fresco, di attuale, di drammaticamente moderno e non ancora esente da sconti col passato.

Leonardo Tomei

Tracklist:

  1. Fall Away
  2. Log On
  3. Electric Rain
  4. Ennio
  5. Automatic Love
  6. Dark Room
  7. Lie To Me
  8. Digital Dreams
  9. Sleeping Tablets
  10. Body Shaming
  11. Russian Roulette
  • Anno: 2024
  • Etichetta: My Kingdome Music
  • Genere: Dark New Wave

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