I Valadier sono una giovane band marchigiana dedita ad un Black Metal “medievaleggiante” infarcito di passaggi acustici e atmosferici, come se il tempo si fosse fermato a una trentina di anni fa. Si tratta di un progetto da studio, in cui tale Blight suona le chitarre e programma una batteria piuttosto rudimentale, Unukalhai (che prende il nome da una stella della costellazione del Serpente) scrive i testi e canta e Winterkvlt partecipa con voce femminile e strumenti a fiato. Il Black Metal ha sempre fatto dell’attenzione al proprio passato e al proprio territorio una bandiera e i nostri non fanno eccezione, andando a scegliere per il proprio nome quello del progettista del famoso “tempietto” tra le rocce di Genga (AN). Poi vabbè, pare che l’attribuzione all’architetto/orafo neoclassico romano sia impropria, ma sappiamo bene che un’altra caratteristica del Black Metal (non me ne vogliate) è un certo pressappochismo filologico, controbilanciato da una bruciante, romantica passione, che ci fa chiudere un occhio sui dettagli…

Per chi, come me, ha un’età tale da poter ricordare per esperienza diretta quella valanga di band che, sulle orme dei primi apripista, sul finire degli anni novanta ci propinarono la propria versione di trvemedievalblackmetal, questi Valadier potranno sembrare un trascurabile tentativo di esercizio di stile fuori tempo massimo. Oppure chissà, potrebbero suscitare un moto di nostalgia.

Se è vero che alle mie orecchie quasi nulla di quanto ho ascoltato su questo album risulti particolarmente avvincente, ho però provato anche a chiedermi come sarebbe potuto essere stato accolto questo “Carmina Belli Apocalypsis” che ne so, nel 1997: avrebbe potuto competere con la concorrenza internazionale? Probabilmente sì. Anche perché il livello medio era piuttosto deludente. Ma come in tutte le operazioni di revival, se manca lo “spirito del tempo” a infiammare di senso anche gli entusiasmi più velleitari, non si fa molta strada e il gioco regge fino ad un certo punto.

Ci sto girando in torno, la prendo alla larga, perché in fondo questi ragazzi mi sono simpatici e percepisco un’autentica passione per quello che fanno, ma ahimè, diciamocelo: questo debutto non è certo un capolavoro.

Rispetto al precedente EP ho apprezzato la volontà di dare al proprio suono un aspetto più “raw” e meno sintetico, una sorta di patina rugginosa e nebbiosa (o un filtro di Instagram?) che sprofondasse gli strumenti digitali in una brughiera che ne dissimulasse l’artificiosità. Personalmente trovo piacevole anche il logo “architettonico” e naïf, nonostante risulti poco leggibile sopra alla pregevole copertina che sembra proprio realmente dipinta: tra prospettiva improbabile, composizione dal bilanciamento perfettibile e l’assenza di ombre portate, emerge il bel gruppo dei quattro cavalieri dell’apocalisse, mentre gli omini sottostanti (crociati vs sciabolanti), in una fissità tipicamente medievale offrono (a chi vorrà zumare) curiosi siparietti.

La traccia di apertura, “Under The Skies Of Gehenna”, presenta tutte le caratteristiche del genere: un minuto di effetti sonori a base di clangore di lame, un trillatissimo riff di repertorio, uno scream tonsillare e una bella strofa dall’andamento cantilenante, il growl che si inserisce a metà brano e una sorta di coro catacombale, per tornare a chiudere con una melodia folkeggiante e ballerina accompagnata dalle urla strazianti dal campo di battaglia.

Altar Of The Lost Firmament” ha un attacco da manuale, con un paio di giri con gli stacchi prima dell’ingresso della doppia cassa (finta) e il reiterarsi del riff su vari ritmi di batteria, rievocando Satyricon e Darkthrone. Ecco, dal punto di vista della scrittura, non siamo necessariamente tanto inferiori ai modelli di riferimento, ma a livello di senso, performance e credibilità siamo su registri poco più che amatoriali. I riff di Blight non hanno alcun difetto (se non una palese mancanza di originalità), mentre il buon Unukalhai non eccelle in nessuno degli stili vocali proposti e indulge in un altro topos del Black Metal: i testi enfaticamente altisonanti, pseudopoetici, ridondanti, ricchi di aggettivi e luoghi comuni. Peccato, perché l’impegno è evidente.

L’introduzione di “At The Court Of The Seven Hills” mi ha fatto tornare alla mente le squisitamente puerili musichette di Mortiis, che col suo naso puntuto fa capolino piuttosto spesso, nella musica dei Valadier. Il brano prosegue con una strofa epica, in una normalità stilistica rassicurante e per certi versi persino appagante. Poi c’è un coro in latino a dare il bentornato ai crociati, prima dell’ingresso della voce di Winterkvlt che, nonostante le stonature terrificanti (agghiaccianti…), conferisce un nonsoché di fascino arcaico non distante dalle atmosfere magiche dei Dunwich di Claudio Nigris (ve li ricordate?). Il brano prosegue con un fraseggio trionfante e battagliero e, anche se chiude in maniera decisamente meno efficace, resta forse il brano più riuscito del disco.

Si torna a cantare le bellezze della propria terra e della propria storia con “Through The Blackwater Valley”, che altri non è se non la Valnerina: bell’intermezzo acustico arpeggiato su progressioni non proprio nuovissime, con la voce dall’intonazione incerta che torna a interpretare le parti di testo in italiano senza ripetere il piccolo miracolo della traccia precedente. Poi ci tocca pure il sermone in scream italico, per uno sproloquiare piuttosto barboso che non rende giustizia alla bellezza dei territori citati.

Andamento cadenzato e solenne per “As The Shadow Pas The Days”, con tanto di coro latino,  per un’altra infilata di riff di seconda mano ma sempre piacevoli. C’è poco da fare: la mancanza di una batteria vera, in un genere come questo, sottrae tutta quella componente di brutale ferocia e disperata ostilità che ne costituiscono la spina dorsale e la band non riesce a sopperire a questa mancanza con una qualità di scrittura sufficientemente elevata da farcene dimenticare. Poi c’è quel fraseggio di chitarra che mi sembra simile al celeberrimo solo di sax di “Baker Street” e mi strappa un sorriso. C’è spazio anche per un intermezzo declamato/narrato e, a seguire, tutto il repertorio ritmico possibile all’interno del ristretto menù: cadenzato, triplette, doppia cassa continua, di nuovo cadenzato, mentre facciamo sempre più fatica ad empatizzare con crociati, templari o altri conquistatori di qualsiasi presunta terrasanta.

Modulazioni muezzinali introducono “Eclipsed By The Palm Of Hamsa”, che mantiene un’atmosfera “arabeggiante” un tanto al chilo per tutta la durata del brano, inclusa la inumana sfuriata in blast beat centrale, capace di infondere un po’ di variazione cromatica, pur utilizzando materiale ampiamente collaudato.

I rumori di battaglia continuano, ma anche quelli delle folle disperate al suono delle campane del giorno del giudizio e “Requiem Of The Dark Ages” fa da colonna sonora all’apocalisse riproponendo tutti gli elementi musicali precedentemente esposti, senza che di questo evento memorabile si riesca a ricordare un solo riff.

Chiude l’album “In The Sign Of The Stygian Watchers” (ah già, un altro elemento caro al Black Metal: i titoli lunghi!) e, se non fossimo così provati dall’ascolto dei brani precedenti, potremmo apprezzarne l’atmosfera iniziale, l’incedere battagliero (tutto sommato identico, ma formalmente corretto), l’intermezzo arpeggiato, la filastrocca dell’ondivaga voce femminile e la solita martellante, berciante e monotona narrazione. Tipico del Black Metal?

 

Marcello M

 

Tracklist:

  1. Under The Skies Of Gehenna
  2. Altar Of The Lost Firmament
  3. At The Court Of The Seven Hills
  4. Through The Blackwater Valley
  5. As The Shadow Pass The Days
  6. Eclipsed By The Palm Of Hamsa
  7. Requiem Of The Dark Ages
  8. In The Sign Of Stygian Watchers
  • Anno: 2024
  • Etichetta: Black mass Prayers
  • Genere: Black Metal, Medieval Folk, Dungeon Synth

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